Fiaba crudele

C’era una volta una bambina che sembrava una piccola donna. O forse era una piccola donna che sembrava una bambina. L’età non è importante per chi vive fuori del tempo, e lei ci viveva davvero fuori del tempo, in un mondo separato, di sua creazione. Indubbiamente però era giovane, perché della giovinezza aveva il candore, l’ingenuità, e soprattutto quella meravigliosa capacità di illudersi. La vita per lei era un bellissimo sogno, come quel pomeriggio in cui aveva sentito qualcuno piangere in sala da pranzo, e poi aveva visto uscire dalla credenza un incantevole e morbido coniglio col pelo azzurro e gli occhi viola. Non aveva avuto alcuna paura nel trovarselo di fronte così all’improvviso, anzi era stato come aprire finalmente un regalo di Natale a lungo atteso. Naturalmente il coniglio era stato solo l’inizio, il compagno immaginario dei suoi primi anni di vita. Raggomitolato nel cervello di lei, chiedeva e donava tenerezza e calore, e lei si addormentava abbracciata a questa fantasia per ritrovarla immutata nei suoi sogni di bimba. Quando all’asilo gli altri bambini ridevano di lei e la escludevano dai loro divertimenti, lei si rintanava dentro di sé con il suo tenero amico dagli occhi viola, e insieme cantavano le canzoncine che solo loro conoscevano. Era felice, non le importava che gli altri le facessero le smorfie o le dicessero che era matta perché parlava da sola. Lei non era mai da sola, come facevano a non accorgersene? Forse erano loro i veri matti.

     “Ha un’immaginazione così fervida!”, dicevano i grandi.

     Se il coniglio fu il primo, non rimase a lungo l’unico. Pian piano, incespicando più volte per poi rialzarsi con sempre maggior consapevolezza, attraverso una luminescente foresta fatta di segni la bambina imparò a leggere. Nel sottobosco presero allora vita curiose creature, come se si risvegliassero da un letargo millenario. Le si presentarono così, nella loro antica nudità, e lei diede loro una dorata concretezza. Le accolse nella sua mente, chiamandole con i nuovi nomi che lei stessa aveva inventato, e loro risposero. C’era il gatto dell’arcobaleno, che quando pioveva con il sole parlava con voce umana. C’era la piccola strega, che preparava pozioni magiche, e quando la bambina era ammalata le faceva passare la febbre col tocco delle sue mani fresche. C’era l’angelo biondo rinchiuso in un cofanetto d’argento, che la faceva scivolare in un sonno sereno suonando per lei la sua ipnotica ninnananna. La bambina era perennemente circondata dal caldo abbraccio delle sue fantasie. Dio, com’era felice! Nel vento che scuoteva la noia degli altri, lei sentiva ridere le creature che popolavano l’invisibile. Al momento di coricarsi, così come al momento di alzarsi, c’era sempre un frullo d’ali a sfiorare il suo cuscino. Ali che erano pagine, le pagine che lei leggeva e le pagine che lei scriveva. Perché il suo potere di sognare non conosceva confini, se non quelli della sua innocenza.

     La compagnia degli altri non le dispiaceva, ma personalmente non faceva nulla per ricercarla. Se la invitavano, partecipava volentieri ai giochi di gruppo, andava alle feste di compleanno, si divertiva anche; la gioia, però, la vera gioia era tutta un’altra cosa. Era il girotondo dei dischi nelle calde sere estive, quando lei si smarriva tra le radure delle pietre rotolanti e dei coleotteri d’argento, erano i lunghi pomeriggi invernali in cui, passando davanti alla scuola di musica, le sembrava di sentir tintinnare i campanellini di una slitta. Anche le cose che una volta le facevano più paura avevano finito per esserle amiche. Il buio non la paralizzava più come prima da quando aveva imparato a comprenderne il linguaggio; ora sapeva che la sua voce era morbida come una coperta in cui avvolgersi ogni volta che si cercava un po’ di riposo. Il tuono era spaventoso, certo, ma era perché gli spiriti alati della fantasia volavano così in alto da squarciare il cielo; e gli insetti, apparentemente tanto orripilanti, bastava osservarli con attenzione per accorgersi che non erano altro che fate ed elfi. Si illudeva, naturalmente; ma d’altra parte che cos’è la felicità, se non ciò che sta tra un’illusione e una delusione?

     Intanto gli anni passavano (ma passavano davvero?), e lei non si decideva a crescere. Presto sulle facce di chi una volta si burlava bonariamente di lei e della sua feconda immaginazione cominciarono ad apparire espressioni preoccupate. Qualcuno si domandò se non fosse il caso di allarmarsi e di chiedere aiuto a chi di dovere. Qualcun altro suggerì che le si facesse passare più tempo con ragazzi della sua età. Parole prese in prestito dai più aggiornati manuali di psicologia si intrecciarono altisonanti sopra il mistero di quella continua e immotivata gioia. Perché, diamine, non era normale essere sempre felici, e in fondo non era nemmeno giusto.

     “Ha troppa immaginazione!”, dicevano i grandi.

     Finché, un giorno, arrivò il Principe, e fu l’inizio della fine. Apparve sull’enorme schermo d’argento di un cinema dove la bambina entrava per la prima volta, e lì, come una cometa, sfolgorò sublime fino alla sua poltrona, imprimendole a fuoco negli occhi l’immagine della sua assoluta bellezza. Non ci fu quasi il tempo per lui di battere le ciglia, di far balenare verso la cinepresa un illusorio sorriso d’attore, che già lei lo aveva riconosciuto come suo sposo. Fu una rivelazione. Nello spazio di un solo istante la bambina scoprì che cos’era l’amore, e nella sua intatta ingenuità credette che una tale delizia dovesse necessariamente essere reciproca. Incapace com’era di distinguere la fantasia dalla realtà, e totalmente dimentica delle centinaia di persone sedute come lei nella sala, non ebbe dubbi che lui fosse lì solo per lei; e poiché lei lo amava, allo stesso modo doveva amarla lui. Non era forse a lei che aveva sorriso? Fu così che cominciò la sua ultima e più dolce illusione.

     Arrivarono giorni di pura magia. Era ovunque, era sempre, era tutto. Nulla poteva essere immaginato di più perfetto, di più completo. Andava al di là dell’orizzonte, oltre l’infinito. Era una gioia che si faceva vertigine. Non rimaneva più niente da desiderare. La bambina smise di mangiare, di dormire. Con lo sguardo fisso sulla fotografia che ammiccava dal comodino, vegliava in estatica immobilità come rapita da un’aurora boreale senza fine. Non parlava nemmeno più. Per lei ormai esisteva solo il Principe. Che era Principe degli elfi, delle fate, degli angeli che suonavano nei carillon, era Principe della luna e delle stelle cadenti, era Principe delle minuscole creature che avevano dimora nelle gocce di pioggia, degli animaletti nascosti tra i rami degli alberi e di tutti gli spiriti che vivevano nell’aria, nell’acqua, nella terra e nel fuoco. Ogni precedente fantasticheria della bambina, ogni precedente concezione del suo cervello trovava in lui origine e compimento. La bellezza di quella figura maschile poneva il proprio sigillo su ogni suo delirio. Beato candore, quale godimento traeva dall’inganno che tendeva a se stessa! Contemplava e adorava il suo Principe con una fede che rasentava l’idolatria, e credendosi ricambiata si nutriva soltanto del suo miraggio d’amore. Si era immersa così a fondo nel sonno della ragione da dimenticarsi di vivere. Era inevitabile che, presto o tardi, tutto questo giungesse alla fine.

     “Ha un’immaginazione completamente malata!”, dicevano i grandi.

     E, nel vederla arrivata a tanto, stabilirono allora che il limite era ormai superato. Per dolorosa che fosse, la verità andava finalmente detta alla bambina. Era giusto così. Non si poteva rimanere giovani in eterno. Avevano aspettato, confidando nel tempo, che lei maturasse e che abbandonasse da sola quelle sciocchezze, ma inutilmente. Niente era riuscito a intaccare la sua luminosa innocenza; anche di fronte alla più squallida realtà, lei era sempre altrove. E dove, poi? All’interno della sua testa matta. Bisognava farla uscire di lì.

     Non erano cattivi. Erano animati dalle migliori intenzioni. Nessuno di loro, però, si fermò per un istante a chiedersi di chi era la colpa (se colpa c’era), nessuno si domandò perché quella bambina avesse sempre vissuto nel suo mondo di fantasia. Forse erano persone che trovavano la realtà così meravigliosa da non aver bisogno di fantasticare; forse la vita li impegnava a tal punto da non lasciargliene nemmeno il tempo. O forse, chissà, in un giorno lontano avevano anche loro sognato come lei, avevano congetturato, avevano creduto, per poi vedere a poco a poco ogni illusione cozzare, incrinarsi e infine frantumarsi contro il muro della realtà, e in fondo all’animo covavano un inconfessato rancore verso chi nella propria ignoranza poteva ancora gioire. Nessuno di loro probabilmente sapeva perché si accingeva a infrangere i sogni della bambina; ognuno aveva però la stessa ferma convinzione: che la verità va sempre detta a chi ci è caro.

     La bambina ascoltò immobile le loro parole, seduta sul suo letto, con gli occhi spalancati e inutilmente supplicanti, e li chiuse soltanto quando anche l’ultima voce ebbe finito di dire quello che doveva dire. Allora si portò le mani al volto, e le venne il capogiro. Le sembrò di impazzire, sentì che il cuore le si schiantava. Il Principe, il gatto, la strega, ogni essere cui lei aveva dato vita morì all’istante. Anche il coniglio dal pelo azzurro e dagli occhi viola si accasciò di colpo, stroncato dalla realtà. Tutti vennero inghiottiti dal nulla. E dal carillon che una volta racchiudeva un angelo biondo uscì un ultimo flebile suono, un ultimo sospiro che sfociava nel pianto.

     Lei no però, lei non pianse. Rimase così, in silenzio, con gli occhi chiusi, fissi nelle tenebre sulle rovine del suo mondo. Poi improvvisamente li riaprì, e lì, davanti a coloro che le avevano detto la verità, il suo sguardo si incupì e si abbassò, le palpebre si fecero cadenti, le guance si incavarono; come sotto un peso intollerabile la sua schiena si incurvò, deformandosi; i capelli le si diradarono, diventarono bianchi; tutto il suo corpo si raggrinzì, sbiadì ogni sua tinta. Perfino la sua voce non fu più la stessa quando disse:

     “Ecco, finalmente sono cresciuta. Siete soddisfatti, adesso?”

E non visse mai più felice e contenta.

Alessandra Pavani (ladykinski)

(Questo racconto è tratto dalla raccolta “La luna allo specchio” di Alessandra Pavani, disponibile su Amazon )

“Noi non uccidiamo nessuno, amiamo soltanto”*

‘Il caso delle sirene. Per Omero questo mostro di natura era un collage di donna e di uccello, e così ce le descrive nell’Odissea. Più tardi, Orazio allude alle sirene ma come innesto, ben più noto, di una donna e di un pesce. Nel Fisiologo, opera scritta nei primi secoli dell’era cristiana, la sirena ha per metà corpo muliebre e per metà corpo d’oca. Qualche secolo più tardi, all’ombra del Mille, su un altro bestiario, Liber Monstruorum, la coda della sirena subisce un’altra metamorfosi zoologica, e torna a farsi squama, e pinna natante. Tutte chirurgie, e trapianti, fantastici, che dimostrano l’instabilità dell’immagine mentale, incerta tra il pesce e l’uccello.’ (Giorgio Celli)

Sirene: creature che non appartengono alla Terra, ma all’Aria (metà donne metà uccelli) o all’Acqua (metà donne metà pesci). Le leggende che hanno per protagoniste le sirene risalgono alla notte dei tempi: la prima di cui siamo a conoscenza è Atargatis, una divinità originaria della Mesopotamia il cui culto si diffuse per tutto il Mediterraneo, fino alla Grecia e all’antica Roma. Già nell’Età del Bronzo erano venerate diverse divinità ittiche, essendo i pesci e l’acqua simboli di fertilità e di abbondanza. La dea Atargatis era dunque garante della ricchezza del suo popolo, oltre a incarnare i valori della protezione e dell’ordine sociale. Sorge a Hierapolis un tempio a lei dedicato. Secondo una leggenda, inizialmente era una donna, innamorata del dio della comunità, Hadad. Quando costui morì in circostanze tragiche, la donna, per disperazione, si tuffò negli abissi, e qui avvenne la sua metamorfosi in sirena, che la legò per sempre al suo popolo, divenendo di fatto parte di quel mondo acquatico che assicurava la sua fertilità e la sua abbondanza. Una volta entrata nel pàntheon dell’antica Grecia, la figura di Atargatis venne associata alla costellazione dei Pesci, i cui significati simbolici e religiosi concernevano la spiritualità, la dimensione onirica e il subconscio. 

Se in ambito greco-romano Atargatis mantenne il suo status di dea protettrice e feconda (alcuni studiosi ipotizzano che Atagartis fosse solo un altro nome della grande Dea Madre Syria), le creature che noi oggi conosciamo come sirene costituivano invece per gli ellenici qualcosa di ben diverso. In Omero sono donne alate ingannatrici che facevano naufragare i marinai, esseri onniscienti dotati di misteriosi poteri, seducenti mostri la cui arma più letale era il canto. Quando Ulisse, nell’Odissea, si trova a passare accanto a loro (successivamente chiamate Leucosia, Partenope e Ligea), si fa legare dai compagni all’albero maestro per non cedere al pericoloso e irresistibile incanto della loro voce, e tuttavia non si tura le orecchie come gli altri marinai, perché quella voce ammaliante che promette la conoscenza Ulisse la vuole udire! Alle sirene, sconfitte dalla resistenza di Ulisse e dei suoi compagni d’avventura, non resta che suicidarsi, compiendo quello che in greco viene detto katapontismós (ossia ‘morte per acqua’).  

Ma rimaniamo in Grecia, spostiamoci solamente nel tempo, pochi secoli dopo. Nel 412 a. C. (ricordiamo che l’Odissea fu scritta attorno all’VIII secolo a. C.) Euripide portò in scena la tragicommedia Elena, un’opera che scagionava la presunta amante di Paride il cui rapimento aveva provocato la guerra di Troia. Anche Euripide nominò le sirene, anch’egli fece riferimento al potere prodigioso del loro canto. Qui tuttavia la loro voce non era un’arma, bensì un balsamo che leniva le pene delle anime dei defunti. Poste da Euripide davanti alle porte dell’Ade, egli fece di loro delle creature crepuscolari e consolatorie, che addolcivano ai trapassati il soggiorno nell’Oltretomba. Un’altra leggenda dell’antica Grecia avente come protagoniste (o, meglio, come antagoniste) le sirene è presente nel poema Le Argonautiche di Apollonio Rodio, risalente al III sec. a. C.. Qui, Giasone e gli Argonauti riuscirono a sfuggire alle mortifere incantatrici grazie a Orfeo e alla sua musica. E’ soltanto in questo poema che abbiamo la prima vera descrizione dell’aspetto delle sirene (nell’Odissea Omero non aveva accennato in alcuna maniera alle loro fattezze, il che farebbe pensare che alla sua epoca si trattasse di creature ben note ai suoi lettori, e confermerebbe le loro antichissime origini): Apollonio Rodio invece si sofferma sulle loro sembianze, e le definisce creature metà umane metà uccelli dotate di affilati artigli. Pare ormai confermato che la loro metamorfosi in donne dotate di una coda di pesce sia avvenuta nel Medioevo, e più precisamente intorno al II secolo d. C.

Scrive Elisabetta Moro, Professore Ordinario di Antropologia Culturale e docente di Mitologie contemporanee: ‘Il corpo delle sirene ha cambiato forma gradualmente e più volte. Non sappiamo esattamente come sia accaduto, ma sappiamo che è successo. Il loro polimorfismo le ha rese compatibili e adattabili a molti contesti e significati diversi, passando da una connotazione negativa, legata al pericolo, a quella attuale, che le ritrae come esseri affascinanti, niente affatto temuti. Passando per una fase intermedia dominata dal tema del corpo seduttivo. Come se per continuare il mito dell’attrazione fatale la voce non fosse più sufficiente e necessitasse di nuove ragioni di plausibilità. Si giunge così all’idea di una sirena più seduttiva anche nel corpo.

Quel che è certo è che, durante il Medioevo, la Chiesa vide nella figura della sirena qualcosa di mostruoso e di diabolico: in fondo si trattava di una creatura non umana (non interamente, almeno), una donna dotata del potere della seduzione, della tentazione che porta gli uomini alla rovina, una sorta di strega che ammaliava le sue vittime con la propria lussuria e impudicizia, simbolo di perdizione e di vanità (non era raro che le sirene venissero raffigurate nell’atto di pettinarsi i lunghissimi capelli guardandosi allo specchio). Un altro aspetto da non trascurare: sebbene le sirene appaiano nei miti e nel folklore di quasi tutte le culture e religioni (si possono trovare nelle leggende mediorientali, africane, etrusche, greco-romane, celtiche, russe, e addirittura dell’estremo Oriente), nella Bibbia non ne è rintracciabile nemmeno un accenno. Eppure si tratta di figure primordiali, ataviche, forse addirittura archetipi dell’inconscio collettivo di cui parlava Jung. Perfino l’etimologia del termine sirena è avvolta nel mistero. Scrive a tal proposito Euterpes Domus nel suo blog EtimologicaMente: Per quanto riguarda (…) l’etimologia della parola “sirena”, essa deriva dal termine greco Σειρήν, “Seirḗn” (plurale Σειρῆνες, “seirênes”), di incerta origine. Taluni hanno avanzato l’ipotesi che il termine vada ricollegato all’aggettivo σείριος, “séirios” (splendente, ardente, da cui anche Sirio —> cfr. sanscrito “Sūrya”, sole), che farebbe quindi delle sirene degli spiriti o dei demoni di mezzogiorno (l’ora più calda e quando il sole splende di più, appunto). Altri legano il termine a σειρά, “seirà” (“corda”, “fune”), riprendendo il fatto che le sirene “legano” a sé i naviganti e li irretiscono. Infine, l’ipotesi più semplice si basa su un origine semitica dal verbo “sir”, “cantare”.

Se facciamo un tuffo nel folklore celtico, troveremo un sacco di leggende sulle sirene. Prendiamo ad esempio la sirena di Zennor. In Cornovaglia esiste questo piccolo villaggio, Zennor appunto, in cui si trova una chiesa che conserva la sedia della sirenetta, un sedile in legno con una sirena intagliata lateralmente. Secondo un’antica leggenda, ogni domenica una sconosciuta fanciulla si recava alla Messa per ascoltare il canto di un giovane corista. Costui, affascinato dalla ragazza, decise un giorno di seguirla fino a un torrente, da cui non fece più ritorno. Pare quindi che la sconosciuta fosse una creatura marina, e che per amore il corista abbia abbandonato la propria vita terrena per unirsi all’universo degli abissi. Nella Mermaid’s Cove (così venne in seguito chiamata la parte meridionale del paese) si racconta che ancora oggi si possano udire le voci dei due amanti unite in un canto melodioso e magico. Spostandoci in Irlanda possiamo fare la conoscenza di Lí Bán, donna bellissima la cui storia viene narrata addirittura negli Annali dei Quattro Maestri (cronaca medievale della storia irlandese). Principessa dell’Ulster, fu, insieme al suo cane, l’unica a sopravvivere quando la sua casa venne inondata. Dopo un anno di dolorosa solitudine, ottenne dagli dèi la possibilità di diventare una sirena, per condividere la sua vita col popolo marino; anche il suo adorato cane, trasformato in lontra, poté così continuare a starle accanto. Ribattezzata Muirgen, fu fatta santa e patrona delle sirene. La sua festa cade il 27 gennaio.

Per rimanere in ambito celtico, non si può non nominare Ceasg, la celebre sirena dalla coda di salmone che viveva nel mare della Scozia e che, se catturata, poteva esaudire tre desideri espressi proprio da chi l’aveva fatta prigioniera. Si racconta che si unisse spesso carnalmente a esseri umani, concependo numerosi figli, ma portando poi alla morte i suoi sventurati amanti e le loro eventuali mogli. Secondo lo studioso di folklore Donald MacKenzie, Ceasg era originariamente una dea del mare a cui venivano offerti sacrifici umani. Le Morfowynion sono invece le sirene del Galles, personificazioni delle onde pericolose. Di colore brunito, hanno un volto mostruoso, senza mento né orecchie, braccia corte e mani palmate.

Passiamo ora alle leggende e ai miti germanici. Se nel folklore celtico le sirene alternavano caratteristiche benigne a nature perverse, per i tedeschi esse sono senz’ombra di dubbio creature malvagie. Chiamate Nixes, vivono in uno splendido castello situato nelle profondità dei laghi o dei fiumi, e possono mescolarsi agli umani rendendosi invisibili oppure trasformandosi in splendide fanciulle o vecchie megere. Dotate di poteri profetici, sono facilmente smascherate se viene suonata della musica, poiché in questo caso non riescono a trattenersi dal danzare. Alcune leggende le vedono protagoniste di rapimenti di bambini o di inganni tesi a portare gli umani ad annegare. In Norvegia la sirena è detta Havfrue, e descritta come maligna e vendicativa. Non solo: secondo alcune fonti sono anche apportatrici di sventura (da qui l’usanza dei marinai di scolpire sulla prua delle loro navi una polena, il cui compito sarebbe di ingraziarsele). Le sirene scandinave inoltre sono caratterizzate da un aspetto ambiguo; in apparenza il loro viso è grazioso e gentile, ma in realtà possiedono denti affilati e taglienti. Infine, non dobbiamo dimenticare che anche la nostra bellissima penisola è ricca di leggende riguardanti queste affascinanti e pericolose abitanti dei mari. Ne riporterò qui una, forse la più famosa, esattamente come l’ho trovata sul sito Museo Italiano dell’Immaginario Folklorico:

‘La leggenda narra che quando Taranto era la capitale della Magna Grecia, ed essendo bagnata da due mari, divenne meta preferita delle sirene che decisero di risiederci in modo stabile costruendoci il loro castello incantato. In quell’epoca viveva a Taranto una coppia di sposi, lei bellissima, lui un imponente pescatore. A causa del suo mestiere il giovane pescatore era costretto a star fuori dalla propria città tutto il giorno e a volte anche svariati giorni. La bellezza di lei fu notata da un ricco signore il quale cominciò a provare interesse per la sposa solitaria e approfittando della mancanza del marito incominciò a corteggiarla. Con il passare del tempo riuscì un giorno a sedurla. La sposa preda del rimorso, confessò tutto al marito, il quale la condusse con una barca in alto mare e la spinse in acqua facendola annegare. Le sirene arrivarono in suo soccorso appena in tempo, ed essendo ammaliate dalla sua bellezza la proclamarono loro regina, dandole il nome di Schiuma (Skuma), perché condotta dalle onde. Nel frattempo, il pescatore si pentì del suo gesto e pensandola morta, tornò più volte nel punto in cui la giovane moglie era affogata, piangendo ore e ore.Le sirene incuriosite dal suo comportamento decisero di impadronirsi della sua barca facendolo cadere in acqua. Lo condussero al castello incantato per far decidere alla regina cosa farne. Skuma lo riconobbe è pregò le sue amiche sirene di non fargli del male. Così lo ricondussero svenuto sulla riva lasciandolo li fino al mattino. Quando il pescatore si risvegliò capì che la sua sposa non era morta è capì che nulla era più importante che ricongiungersi alla sua sposa. Così si rivolse a una giovane fata, che gli svelò il modo per liberare la sua dolce sposa cogliendo l’unico fiore di corallo bianco dal giardino delle sirene. Il giorno successivo il pescatore si procurò un’altra barca e arrivato in alto mare, iniziò ad urlare il nome della moglie. Skuma a questo punto fuggì dal castello e riuscì a riabbracciare il giovane pescatore. Prima di lasciarla ritornare dalle sirene, il pescatore riferì a Skuma il modo per poterla liberare e cioè quello di prendere l’unico fiore di corallo bianco dal giardino delle sirene. Così Skuma elaborò un piano da effettuare il mattino seguente. Il pescatore usò tutti i risparmi per comprare bellissimi gioielli, li mise in barca e si addentrò nel golfo di Taranto. Le sirene lasciarono incustodito il castello perché ingolosite da gemme e pietre preziose. Così Skuma riuscì a rubare il fiore di corallo ed a consegnarlo alla fata che la attendeva sulla riva, la quale fece alzare una grossa onda che spazzò via tutte le sirene. Purtroppo, il pescatore non fece in tempo ad allontanarsi e fu travolto dalla stessa onda. Skuma, rimasta sola decise di prendere i voti e divenire monaca. La tradizione popolare vuole che, da quel giorno, nelle notti di plenilunio, Skuma, vestita da monaca, si aggiri per il Golfo di Taranto sperando nel ritorno dell’amato. Da questa leggenda, deriverebbe il nome di una delle Torri abbattute del Castello Aragonese, quella detta, “Torre della Monacella”.’

Anche i paesi slavi hanno le loro sirene. In Polonia si racconta di come una di queste creature protegga la città di Varsavia, dove una statua la ritrae in Piazza Vecchia con la spada sguainata e lo scudo per difendersi. La leggenda che la riguarda riporta che inizialmente i marinai le erano ostili, poiché ogni notte essa liberava dalle reti i pesci da loro catturati. Ma ben presto, udendone il canto ammaliante, si innamorarono tutti di lei, e quando un bieco impresario la imprigionò per trasformarla in un’attrazione da circo i marinai corsero a liberarla. E fu così che la sirena, per ringraziare i suoi salvatori, giurò che per l’eternità avrebbe protetto la loro città. I russi hanno le Rusalki, o le Beregine; i bulgari hanno le Samovile, e i serbi e i croati le Vile. Queste creature erano demoni femminili che vivevano nei fiumi e nei laghi, e, a seconda dei paesi in cui furono tramandate le loro gesta, potevano essere malvagie e pericolose, e ingannare gli uomini per farli annegare, oppure tormentati spiriti di giovani donne suicide o uccise dai loro amanti per poi essere gettate nelle acque. 

Sempre nella mitologia slava esiste anche una variante al maschile della sirena: si tratta del Vodyanoy. Costui attraversava i fiumi su un tronco d’albero e trascinava sott’acqua chi aveva la sventura di incrociarlo. Contrariamente alle sirene, non possedeva un aspetto affascinante; si presentava anzi sotto le sembianze di un vecchio, con lunghi capelli e barba verdastri, e il corpo squamoso, ricoperto di alghe e fango. Le sue mani erano palmate, e al posto delle gambe aveva anch’esso una lunga coda di pesce.

Ma lasciamoci ora l’Europa alle spalle, e trasferiamoci in Oriente. Il poema epico Ramayana è uno dei testi più importanti dell’Induismo, e narra della lotta tra Rama (settimo avatara di Visnù) e Ravana, perfido demone colpevole di aver rapito la sposa di Rama. Tra i guerrieri fedeli a Rama c’è anche un certo Hanuman. Ebbene, è proprio a questo punto che entra in scena una sirena, addirittura una principessa sirena. Il suo nome è Suvannamaccha, e il suo malvagio proposito è quello di rovinare i piani di Hanuman, ma nel compiere la sua missione se ne innamora follemente. Nonostante si tratti di un personaggio del Ramayana, Suvannamaccha è nota principalmente in Thailandia e in Cambogia. Nel folklore filippino, le sirene assomigliano quasi in tutto a quelle occidentali, l’unica variante è che, secondo le leggende che le vedono protagoniste, esse vengono spesso accompagnate da verdi umanoidi ricoperti di squame, dotati di pinne e di arti palmati, chiamati Siyokov. In Cina si dice che le lacrime delle sirene si trasformano in perle, e in Giappone sono apportatrici di sventure e naufragi se catturate da esseri umani; queste creature (Ningyo, in giapponese), che in comune con le sirene occidentali hanno la voce ammaliante e flautata, possiedono però lineamenti bizzarri, in quanto la loro bocca è simile a quella delle scimmie.

Nella cultura africana, la sirena è una vera e propria divinità. Il suo nome è Mami Wata, e le origini del suo mito sono piuttosto complesse, poiché vi si mescolano credenze indigene e tradizioni portate da popoli stranieri. Scrive l’archeologa Arianna Santini: ‘Divinità delle acque marine, Mami Wata si manifesta come una sirena e il suo culto abbraccia alcuni stati costieri che si affacciano sul Golfo di Guinea. Le sue prerogative sono principalmente legate alla fertilità e a tutto ciò che riguarda il mondo dello spirito e del corpo femminile. Questa divina sirena dimora sul fondo del mare, in una città bella oltre l’immaginabile; è possibile incontrarla e vivere in tale posto, ma ciò ha un costo e questo è la morte. Solo in questo modo è possibile “vivere” negli abissi più profondi. Chi decide di non vivere insieme a lei nel suo palazzo sottomarino torna nel suo mondo coi vestiti completamente asciutti e con un nuovo bagaglio di consapevolezza, più belli e addirittura più ricchi, sintomi del superamento di una prova che li ha fatti tornare cambiati, nell’ottica di un’iniziazione. La morte, vera o rituale, è la condizione necessaria a raggiungere un punto più elevato dell’esistenza, la vicinanza alla divinità e al mondo del sovrannaturale. Mami Wata è una dea “polifunzionale”, è aperta alla stipulazione di patti e racchiude in sé molti dei difetti solitamente attribuiti alle donne dalle varie società di appartenenza: vanità, avidità e attaccamento al denaro, gelosia, libertinismo e ambiguità, talvolta si presenta anche in forma maschile, prepotenza e irascibilità. Durante la grande stagione di importazione di umani dall’Africa all’America, a partire dal 12 Gennaio 1510 (lo sappiamo perché è in questa data che il governo francese ufficializzò la tratta, ma le navi negriere già erano cariche e partirono immediatamente), gli sfortunati viaggiatori forzati portarono con loro anche le divinità. Nel corso del tempo elaborarono che avrebbero potuto usare il loro potere come arma contro l’oppressore bianco e i suoi crimini (o almeno questo è ciò che, in un’accurata opera di propaganda antivoodoo, è stato fatto credere per demonizzare questa nuova cultura con antichissime radici e i suoi praticanti). Queste 18 tribù dell’Africa occidentale si unirono spiritualmente mettendo insieme le loro similitudini e diedero vita alla religione sincretica del Voodoo (più vicina di altre, dello stesso ceppo, alla cultura Africana del Golfo vera e propria). La loro fede era l’unica cosa che possedevano e ciò che li univa rendendoli forti della propria identità e rendeva i loro animi sempre pronti alla rivalsa. Nel 1685 però una legge del corpus del “Codice dei Negri” sancì la condizione d’illegalità della professione della propria religione, imponendo a queste persone il battesimo: chiunque non si fosse sottoposto a tale rito sarebbe stato imprigionato e spostato, separato dal proprio gruppo verso nuova destinazione. Nel caso in cui fosse stato un sacerdote a non convertirsi, sarebbe stato ucciso. Gli Africani non si arresero mai. Fin dalla prima generazione, presero a riunirsi sulle montagne per preservare la loro identità e capirono che l’unico modo per farla sopravvivere sarebbe stata mascherare le loro divinità da santi e funzionò. Come si inserisce Mami Wata in questo articolato schema di corrispondenze? Non è specificato con precisione e a mio avviso sarebbe inesatto limitare una forma divina inserendola in un parallelismo chiuso con un’altra. Sarebbe banale assimilarla ad una Gran Madre o una santa specifica; Mami Wata è Mami Wata col suo serpente attorno al collo e non per forza deve essere stata rielaborata in un’accezione positiva per essere “accettata” dai bianchi. Tale dea è stata assimilita ad una serva del Diavolo e la religione cattolica non ha mai rifiutato l’esistenza di tale potenza, quindi a Mami Wata venne permesso di esistere. La sua forma di donna -pesce potrebbe essere successiva alla sua più antica rappresentazione che non è riportata da alcuna fonte, ma in virtù della sua altra manifestazione il serpente e del suo campo d’azione che è quello delle acque, è stato automatico conferirle tale forma. Suggestiva e fantasiosa è la teoria secondo la quale sia dovuta alla vista delle polene delle navi che sicuramente transitavano ed attraccavano in Africa Occidentale tra il XVI e XIX secolo. Queste solitamente avevano forme femminili e talvolta erano proprio sirene e ciò può aver condizionato l’osservatore e aver creato l’immagine della sua divinità. L’ipotesi che ritengo più verosimile o anche solo più accattivante, ci fa fare un salto indietro nel tempo al 1887, quando la cultura indiana già pubblicizzava in tutto il mondo le sue meraviglie, e in Nigeria apparve il manifesto de The Snake Charmer, lo spettacolo di un’incantatrice di serpenti, Nala Damayanthi; l’artista era circondata di serpenti e abbigliata riccamente: non sarebbe potuta essere che lei il volto della dea! Mami Wata ha la pelle chiara, è “la bianca venuta dal mare”, e una folta chioma scura; in alcune raffigurazioni invece appare con la pelle scura, probabilmente ad immagine e somiglianza della musa dell’artista e quindi si diffonde in entrambe le varianti, senza che questo possa costituire un problema formale. Nala Daayanthi era indiana, ma nata in Francia e questo spiegherebbe anche il perchè Mami Wata nasce come divinità dalla pelle bianca o almeno più chiara rispetto ai suoi adoratori africani. Talvolta si manifesta come completamente umana e molti giurano di averla vista aggirarsi nei mercati, in forma di uomo o di donna, carica di gioielli, per soddisfare la propria vanità; le sue effigi e i suoi altari riflettono questa caratteristica, è infatti raffigurata in modo quasi barocco. Il culto può essere anche collettivo, ma Lei preferisce trattare con i propri fedeli singolarmente: ha una corte di adepte chiamate Mamissi che in alcuni periodi dell’anno portano collane al mare per purificarle in acqua e trasmettere la loro carica positiva alle proprietarie. I devoti indossano abiti bianchi e rossi a sottolineare la spiccata natura duale della dea, maschio e femmina, benevola e capricciosa, dea della fertilità e dispensatrice di morte. La danza sfrenata fa parte del rito; adora ricevere doni preziosi, cibi e bevande ed è circa mezzo secolo che la Coca Cola è entrata a far parte della ritualità ufficiale di questa ed altre divinità. La sessualità è una prerogativa fissa di Mami Wata, tanto nel versante africano che in quello americano, ma non soltanto dal punto di vista fisico perché ciò a cui lei ambisce nel rapporto con i suoi adepti, sono fedeltà e discrezione, infatti impone che essi non parlino con gli altri dei loro incontri e in cambio concede ricchezza e felicità. Mami Wata concede anche la guarigione dai malanni più vari e da gravi patologie e viene spesso incolpata di questo genere di problemi di salute, ma ha a cuore chi si cura del suo culto e si prodiga per il benessere degli umani. Mami Wata subisce vessazioni anche in epoca moderna, viene infatti, con mia enorme sorpresa, ancora demonizzata e i suoi adepti osteggiati in un ritrovato fervore antivoodoo, inaspettatamente in ambito europeo, incolpando velatamene il culto di incentivare la prostituzione.

Sirene, sirene, sirene… Ogni mare, ogni oceano sembra dunque ospitare queste creature affascinanti e imprevedibili. O perlomeno così raccontano le leggende e i miti del mondo intero. Ma quanto ci sarà di vero in queste storie? Possibile che esistano effettivamente donne bellissime dalla coda di pesce capaci di incantare gli uomini col suono melodioso della loro voce? Cristoforo Colombo asserì di aver avvistato, nel 1493, degli esseri pesciformi, ma dal volto maschile. Ma se l’esploratore genovese fu il primo ad affermare di averle viste, non rimase a lungo l’unico. Nel 1608 alcuni membri dell’equipaggio del navigatore Henry Hudson si dissero sicuri di aver avvistato una sirena dalla pelle chiara e dai capelli neri, anche se non si conosce con certezza il punto esatto in cui la creatura si mostrò ai marinai. Nel 1881 un pescatore vide (o così raccontò) di averne avvistata una per ben cinque volte nel fiume Susquehanna, in Pennsylvania. Altri due resoconti provenienti dal Canada parlano di due avvistamenti avvenuti a un secolo di distanza l’uno dall’altro. Pare inoltre che nell’Europa rinascimentale ogni corte possedesse una Wunderkammer, ossia una “Camera delle Meraviglie”, dove venivano collocati reperti archeologici, antichità e animali fantastici mummificati; ebbene, tra questi ultimi aveva naturalmente il suo posto d’onore la sirena. Il suo aspetto, in verità, non era particolarmente attraente. Le sirene mummificate apparivano più come piccoli alieni con le pinne che come fanciulle dai lunghi capelli e una coda di pesce. Il motivo della loro scarsa avvenenza? Presto detto: si trattava, niente di più, niente di meno, di raiformi (comunemente chiamate razze) imbalsamati in maniera fantasiosa e creativa per dar loro una vaga sembianza umanoide. Delle falsificazioni, in definitiva, quelle che oggi in romanesco vengono dette “sòle”.

Ma le sirene, quindi, esistono oppure no? Lasciando da parte i poveri pesci imbalsamati spacciati per sirene, che cosa dobbiamo pensare degli avvistamenti registrati nel corso dei secoli? Secondo gli scienziati, non c’è alcuna prova della loro esistenza. Chi raccontò di averle viste probabilmente era in buona fede, sinceramente convinto di aver avuto un incontro ravvicinato con queste fantastiche creature degli abissi; è molto più probabile, però, che si trattasse di dugonghi o di lamantini, il cui corpo può effettivamente essere scambiato, soprattutto se visto da una grande distanza, per quello di una sirena. Esiste poi, sempre secondo gli scienziati, un paradosso imprescindibile che riguarda la figura della sirena: essa viene sempre rappresentata, dai fianchi in su, come una donna, dotata di seno e di ombelico; tuttavia, se la parte inferiore del suo corpo è simile a quella di un pesce (il che la rende un non-mammifero), che senso avrebbero seno e ombelico, funzionali esclusivamente per i mammiferi?

Sirena
Sono convinto che tu non esista
e tuttavia ogni notte ti ascolto
t’invento a volte con la vanità
con la desolazione o la pigrizia.
Dall’infinito mare arriva il tuo stupore
l’ascolto come un salmo e ciò malgrado
son così certo che tu non esista
che ti aspetto nel sogno per domani. 

Mario Benedetti (1920-2009)

Letture consigliate

Skye Alexander:    “Sirene” 

Doreen Virtue:    “Sirene e delfini” 

Doreen Virtue:    “Messaggi dalle sirene” 

Doreen Virtue:    “ABC delle sirene” 

Pietro Alligo:    “I Tarocchi delle sirene” 

*Citazione da Giuseppe Tomasi di Lampedusa: La sirena, (originariamente Lighea), Milano, Feltrinelli, 2014

“Chi non rammenta le tentazioni della dama di picche?”_ Il matto

Comincia oggi un lungo viaggio attraverso la scoperta di uno dei più celebri strumenti di divinazione, ovvero i Tarocchi. Un avvertimento è però necessario: noi non pretenderemo di imparare a interpretarli e a trarne predizioni sul futuro, bensì di analizzare uno per uno i ventidue Arcani Maggiori per studiarne le origini, i significati essenziali, le parole chiave e i valori simbolici. Per chi fosse invece interessato a conoscere il loro potere profetico, ci sarà alla fine dell’articolo un elenco di testi finalizzati all’insegnamento di questa pratica.

Dobbiamo innanzitutto sapere che i Tarocchi sono settantotto, e che si suddividono in Arcani Maggiori e Arcani Minori: i primi sono le ventidue figure allegoriche che vengono solitamente interpretate dalle cartomanti per predire il futuro di chi richiede una consulenza, i secondi corrispondono invece alle normali carte da gioco che si usano, ad esempio, per la briscola, contrassegnate dai semi di Bastoni, Denari, Coppe e Spade (l’unica differenza è che, invece di essere dieci, sono quattordici, vanno cioè dall’Asso al Dieci a cui si aggiungono Fante, Cavallo, Regina e Re). Esistono comunque cartomanti estremamente esperte che si servono per fini divinatori di tutte le settantotto carte, poiché ognuna di esse possiede il proprio significato. Trovandoci noi proprio all’inizio del nostro viaggio, non possiamo che partire dal primo degli Arcani Maggiori, che può tuttavia essere contemporaneamente l’ultimo: punto di partenza così come punto d’arrivo, stiamo parlando del Matto, l’Arcano Senza Numero (oppure abbinato al numero/non numero 0). Cominciamo col dire che ognuno degli Arcani Maggiori, oltre al Nome e al Numero, possiede anche quelli che vengono chiamati Significati Essenziali (che sono sempre due e che in genere possono essere considerate le due facce della medaglia, ovvero il significato positivo e quello negativo della carta) e le Parole Chiave. Poiché stiamo ora prendendo in esame il Matto, vediamo come i suoi Significati Essenziali siano Innocenza/Follia, e le Parole Chiave Libertà, Stranezza, Azione Incomprensibile, Spensieratezza, Originalità e Creatività. Passiamo adesso all’analisi dell’immagine vera e propria.  

Mettiamo a confronto cinque diverse versioni di questa figura, tratte da altrettanti mazzi, e noteremo come in ognuna di esse compaiano alcuni elementi ricorrenti.

Come possiamo notare, il protagonista di questa carta è sempre caratterizzato da un abbigliamento bizzarro, a volte tipico del mendicante, altre del giullare; in entrambi i casi è un individuo che oggi chiameremmo outsider, uno che, per scelta o perché spinto dalla necessità, vive ai margini della società. Dobbiamo ricordare che, soprattutto nel Medioevo, esistevano delle regole ben precise relative al vestiario che avevano come scopo quello di distinguere le persone “morali” da quelle “immorali”, e chi esercitava la professione del giullare era relegato, insieme alle prostitute e ai lebbrosi, nella seconda categoria.  Scrive il filologo francese Edmond Faral nel suo Les jongleurs en France au Moyen Age (in italiano “I giullari in Francia nel Medio Evo”, traduzione in L. Allegri ‘Teatro e spettacolo nel Medioevo’, Laterza, Roma-Bari 1988): ‘Un giullare è un essere multiplo; è un musico, un poeta, un attore, un saltimbanco; è una sorta di addetto ai piaceri alla corte del re e principi; è un vagabondo che vaga per le strade e dà spettacolo nei villaggi; è il suonatore di ghironda che, a ogni tappa, canta le canzoni di gesta alle persone; è il ciarlatano che diverte la folla agli incroci delle strade; è l’autore e l’attore degli spettacoli che si danno i giorni di festa all’uscita dalla chiesa; è il conduttore delle danze che fa ballare la gioventù; è il cantimpanca [cantastorie]; è il suonatore di tromba che scandisce la marcia delle processioni; è l’affabulatore, il cantore che rallegra festini, nozze, veglie; è il cavallerizzo che volteggia sui cavalli; l’acrobata che danza sulle mani, che fa giochi coi coltelli, che attraversa i cerchi di corsa, che mangia il fuoco, che fa il contorsionista; il saltimbanco sbruffone e imitatore; il buffone che fa lo scemo e che dice scempiaggini; il giullare è tutto ciò ed altro ancora.’ Anche Michel Foucault mette in relazione la figura del giullare con la follia; dice infatti l’autore del celebre saggio Histoire de la folie à l’âge classique (in italiano “Storia della follia nell’età classica”, traduzione di F. Ferrucci, E. Renzi e V. Vezzoli, Rizzoli, Milano 1963): ‘Il buffone è là per parlare, rappresenta l’istituzionalizzazione della parola folle’. Il protagonista dell’Arcano Maggiore contrassegnato dal numero 0, che sia un mendicante o un pazzo, è dunque fondamentalmente un emarginato.

Altri due elementi che ricorrono nelle varie rappresentazioni di questa figura sono il bastone e il fagotto (inteso come misero bagaglio fatto alla bell’e meglio) che porta con sé, e che rimandano entrambi all’idea del viaggio. Il Matto infatti è indubbiamente all’inizio di un lungo cammino (o al termine, se vogliamo vederlo come ultima carta nella sequenza degli Arcani Maggiori; lo zero, oltre a essere un non-numero, può in effetti alludere, con la sua circolarità, all’infinito, al tema dell’eterno ritorno, alla compenetrazione di principio e fine, come l’ouroboros, il serpente che si morde la coda). Che il viaggio sia appena iniziato o già terminato, ciò che rimane invariato sono l’innocenza del viaggiatore, la sua spontaneità, il distacco da ciò che può invece spaventare gli altri esseri umani. Il suo viaggio non ha altro scopo che non sia il viaggio stesso. Anche perché non dobbiamo prendere questa parola troppo alla lettera; il cammino del folle è il cammino attraverso la vita, e contemporaneamente un viaggio dentro di sé. Egli non è ancora nato, non ha pensieri o preoccupazioni, tutto per lui è nuovo; eppure è, paradossalmente, anche colui che, al termine della vita, dopo aver fatto tesoro di tutte le esperienze passate e aver acquisito la conoscenza di ogni cosa terrena, giunge alla saggezza, che tanto assomiglia alla primigenia innocenza. Non è un caso che l’altro elemento ricorrente di questa carta sia il cane (o il gatto) che lo aggredisce senza provocare in lui il minimo turbamento: se consideriamo il folle sul mattino dell’età, si può attribuire la sua imperturbabilità al morso dell’animale alla sua naturale curiosità per ciò che sta molto più in alto, e a cui aspira fiduciosamente (è talmente immerso nel suo viaggio che nemmeno si accorge del dolore); se invece preferiamo vedere in lui l’uomo che ha attraversato il mondo ed è riuscito a penetrare ogni segreto dell’esistenza, potremmo ipotizzare che siano state così numerose le esperienze vissute da considerare una trascurabile inezia un semplice morso.

Questo Arcano, sicuramente uno dei più affascinanti, rimane tuttavia anche uno dei più indecifrabili: essendo il suo protagonista, lo dice la parola stessa, un Matto, è difficile entrare il contatto col suo senso più profondo. Tra noi e lui esiste una distanza, più o meno breve, ma inevitabilmente caratterizzata dall’incomunicabilità. È la carta degli artisti, dei folli, degli spiriti veramente liberi. L’innocenza che lo contraddistingue l’abbiamo dimenticata, o non l’abbiamo ancora raggiunta. Come avveniva nel Medioevo per gli alienati mentali, da un lato ci attrae e dall’altro ci spaventa. Forse il motivo di questa incomprensione lo si può leggere in un grande classico sulla lettura dei Tarocchi: ‘È difficile comunicare con il Matto. Le cose che sono importanti per lui, sono spesso irrilevanti per gli altri, e viceversa. Porta con sé confusione, ma non perché egli sia confuso, ma perché incontrarlo rivela le piccole menzogne che usiamo per accettare le imperfezioni dell’esistenza.’

Letture consigliate

Morgana Cavalieri:   “Tarocchi”

Liz Dean:   “La Magia dei Tarocchi”

Alejandro Jodorowsky, Marianne Costa:   “La Via dei Tarocchi”

Oswald Wirth:   “I Tarocchi”

Dario Nencini:   “Lettura Intuitiva dei Tarocchi”

“Numeri d’oro stanno nei suoi occhi”

‘Se sei degno del suo amore, un gatto sarà tuo amico, ma mai il tuo schiavo.’ Thèophile Gautier
‘Credo che i gatti siano spiriti venuti sulla terra. Un gatto, ne sono convinto, può camminare su una nuvola.’ Jules Verne
‘Mi dà sempre un brivido quando osservo un gatto che sta osservando qualcosa che io non riesco a vedere.’ Eleanor Farjean
‘Con i gatti non si sa bene dove finisce il normale e dove inizia il paranormale.’ Fernand Mèry
‘Ai gatti riesce senza fatica ciò che resta negato all’uomo: attraversare la vita senza fare rumore.’ Ernest Hemingway
‘So tutto, la vita e il suo arcipelago, il mare e la città incalcolabile, la botanica, il gineceo coi suoi peccati, il per e il meno della matematica, gl’imbuti vulcanici del mondo, il guscio irreale del coccodrillo, la bontà ignorata del pompiere, l’atavismo azzurro del sacerdote, ma non riesco a decifrare il gatto. Sul suo distacco la ragione slitta, numeri d’oro stanno nei suoi occhi.’ Pablo Neruda
‘Vieni, mio bel gatto, sul mio cuore innamorato;/ Ritira le unghie nelle zampe,/ lasciami sprofondare nei tuoi begli occhi/ In cui l’agata si mescola al metallo./ Quando le mie dita carezzano a piacere/ La tua testa e il tuo dorso elastico/ E la mia mano s’inebria del piacere/ Di palpare il tuo corpo elettrizzato,/ Vedo nello spirito la mia donna. Il suo sguardo,/ Come il tuo, amabile bestia,/ Profondo e freddo, taglia e fende come un dardo/ E dai piedi alla testa/ Un’aria sottile, un temibile profumo/ Ondeggiano attorno al suo corpo bruno.’ Charles Baudelaire.

Fate piano: a pochi passi da noi una meravigliosa creatura giace addormentata, ed è sacro il suo riposo. Guardate come il suo respiro si accorda al respiro della terra, ascoltate il suo placido e ipnotico silenzio. Il gatto, uno degli animali più misteriosi e affascinanti del Creato, è da millenni legato al mondo sovrannaturale. In psicanalisi rappresenta il femminile, la notte, la magia. Basti pensare ai suoi occhi capaci di vedere nel buio grazie al tapetum lucidum, la sottile membrana situata dietro alla retina che, in assenza di luminosità, li rende quasi fosforescenti; o alle sue strane pupille, due sottilissime fessure verticali se esposte a una forte luce. Occhi che, secondo alcuni, scorgono gli spiriti dei defunti, occhi che ti leggono dentro, occhi a cui è impossibile mentire. Un’altra peculiarità che contribuisce alla sua fama di creatura dotata di poteri portentosi sono le sue fusa. Pare che il suono gutturale doppio e le vibrazioni emesse dal gatto abbiano effetti benefici sulla salute fisica e psichica di chi gli sta accanto: oltre a donare una sensazione di pace e rilassare i nervi, regolarizzano il battito cardiaco, il che comporta una riduzione del rischio di soffrire di serie patologie del cuore; anche la pressione sanguigna, grazie al contatto con un micio che fa le fusa, si mantiene entro i normali valori di riferimento (risultato dello studio Healing Power of Pets ​condotto dal veterinario Marty Becker). Non è tutto: in campo traumatologico vengono utilizzate le frequenze da 20 a 50 Hz e da 100 a 200 Hz (le stesse prodotte dal gatto) per far sì che le ossa fratturate si saldino più velocemente, e le medesime frequenze favorirebbero addirittura il processo di rimarginazione della pelle ferita. Discreto, elegante, sinuoso, il gatto cammina nella notte senza farsi udire, libero e indipendente, stimolando la fantasia di poeti e musicisti; difficile afferrarlo se non si vuol fare afferrare, e anche se cade da grandi altezze atterra infallibilmente sulle sue quattro zampe. Non c’è da stupirsi se in certe credenze popolari è ritenuto dotato di sette (o nove) vite…

Femminilità, notte, magia… Poteva forse una simile creatura scampare alla cieca barbarie dell’uomo cristiano medievale, per il quale le donne erano esseri moralmente deprecabili, se non vere e proprie agenti del diavolo, e tutto ciò che era legato alla natura, alla libertà, al fascino doveva necessariamente risultare inviso a Dio? Nel Medioevo il gatto era considerato un animale in odor di stregoneria, e spesso veniva torturato e gettato tra le fiamme dei roghi destinati alle presunte serve del male. Scrive Desmond John Morris, zoologo e teologo britannico, nel suo saggio Catwatching del 1986 (in italiano “Il gatto: tutti i perché”, Mondadori, Milano 1988): ‘I bigotti di ogni religione hanno spesso utilizzato l’astuto espediente di trasformare in cattivi gli eroi altrui per soddisfare i propri scopi. Così, ad esempio, l’antica divinità con le corna che proteggeva le antiche culture fu trasformata nel malvagio diavolo del Cristianesimo e il felino, sacro e venerato nell’antico Egitto, divenne il diabolico gatto stregone dell’Europa medievale. Spesso le nuove religioni condannarono automaticamente molte cose considerate sacre da precedenti fedi religiose. In questo modo iniziò il capitolo più oscuro del lungo rapporto tra il gatto e l’umanità. Per secoli fu perseguitato e le crudeltà che gli furono inflitte ebbero il pieno appoggio della Chiesa.’ L’apice della crudeltà fu raggiunto in Scozia, dove gli estremisti cattolici misero in atto una perversa forma di ailuromanzia (predizione del futuro attraverso l’osservazione del comportamento del gatto) chiamata taghairm: il gatto veniva messo, ancora vivo, ad arrostire su uno spiedo, affinché le sue urla strazianti facessero accorrere il diavolo in suo aiuto; costui avrebbe supplicato invano l’officiante di interrompere il rituale fino a che, in cambio della liberazione del povero animale, non avesse concesso all’uomo una profezia sul futuro. Nel 1233 fu la volta della famigerata bolla Vox in Rama emanata dal papa Gregorio IX, che denunciava i gatti (in particolare quelli neri) come esseri infernali, il che rafforzò nella mentalità del popolo la convinzione che fossero creature in combutta con Lucifero.

E pensare che nell’antico Egitto venivano venerati come divinità, e alla loro morte mummificati e offerti alla dea-gatta Bastet. Il religioso rispetto per questi animali era tale che, secondo un racconto dello storico greco Diodoro Siculo, un cittadino romano venne linciato da una folla di Egizi proprio poiché colpevole di aver causato involontariamente la morte di un gatto. Già durante la I dinastia (3150 a. C.-2925 a. C.) esisteva una dea dalle sembianze feline, Mafdet, che incarnava la giustizia e la pena di morte; ma ancora prima di lei, legate al culto del sole, incutevano terrore Sekhmet, la feroce dea della guerra e delle epidemie, raffigurata col volto o col corpo di leonessa e Bast (la futura Bastet), una figura analoga, anch’essa guerriera e spietata vendicatrice. Fu soltanto nel periodo della XXII dinastia (945 a. C.-715 a. C.) che Bast perse la sua aggressività e divenne Bastet, la dea-gatta protettiva e rassicurante, associata al culto della luna e simbolo di fertilità, maternità e vita domestica. Sono arrivate fino a noi rappresentazioni artistiche che la mostrano insieme a una cucciolata di gattini, proprio in relazione alla fecondità. Abbiamo anche immagini di gatti situati sotto le sedie delle donne, a richiamare il loro legame con la sessualità femminile. Non è un caso che nel corso dei secoli Bastet abbia subito questa metamorfosi; la ragione è da ricercarsi nella duplice natura del gatto. Esso è infatti un cacciatore, un predatore solitario, armato di canini aguzzi e di affilati artigli, che delle sue vittime non ha pietà; allo stesso tempo però è anche un animale affettuoso, amante dell’ambiente familiare, la cui calda morbidezza evoca atmosfere di pace e di serenità. La stessa ambiguità possiamo trovarla nelle posizioni che occupa nella mitologia greca: qui infatti convivono la gatta amica di Ares, dio della guerra e della lotta, e Ailuros, dea-gatta lunare affine ad Artemide (ricordiamo che i gatti arrivarono in Grecia perché vi furono portati illegalmente dall’Egitto). Nel territorio ellenico tuttavia l’animale in sé non fu mai oggetto di adorazione; gli antichi Greci (come in seguito i Romani) si limitavano ad apprezzare la sua bellezza e le sue qualità di cacciatore di topi. Per i Celti, al contrario, i gatti erano creature divine e magiche, dotate di un grande potere, ossia quello di essere in contatto con il mondo spirituale. Per i Norreni erano simboli di fertilità, di amore e di guerra a causa del loro stretto legame con la dea Freya, il cui carro veniva trainato proprio da due gatti, Bygul (“ape dorata”) e Trjegul (“ape striata”). Pur non riconoscendo ai gatti una natura divina, anche le popolazioni di religione islamica nutrono da sempre un profondo rispetto per questi animali; ci sono due leggende in particolare che illustrano questo rapporto di reciproca fedeltà tra l’uomo e il gatto, ed entrambe vedono protagonisti Maometto e la sua gatta Muezza: nella prima abbiamo l’animale che, affezionato al profeta e sempre al suo fianco, un giorno si addormenta su un lembo della sua veste, e Maometto che, pur di non disturbare il suo sonno, taglia l’abito in modo da potersi recare alla preghiera senza svegliarlo; nella seconda la gatta Muezza salva il profeta da un serpente sgusciato dalla sua manica, catturandolo e portandolo lontano senza ucciderlo, poiché la sua morte non rientra tra le volontà di Maometto. Pare insomma che le sventure dei nostri piccoli amici felini siano cominciate con l’avvento del Cristianesimo: la tortura e il massacro di tante creature innocenti è solo una delle tante colpe di cui si è macchiata la Chiesa Cattolica. Gatti e donne, vittime di una mentalità perversa che vedeva in loro i perfetti alleati di Satana. Difficile perdonare una tale inumana ferocia.

Col passare dei secoli fortunatamente, conclusa la lunghissima stagione della caccia alle streghe, il nostro amico gatto venne finalmente riabilitato, tuttavia si trattò di un processo lento e graduale. Anche nell’illuminato Settecento, benché non fosse più associato al maligno, il gatto era guardato ugualmente con diffidenza e disprezzo, per il suo presunto opportunismo e la sua golosità. Solo nell’Ottocento e nel Novecento si iniziò a porre l’attenzione sul suo fascino mistico senza demonizzarlo, e ad apprezzare la sua quieta e rassicurante presenza. Oltre a essere celebrato in poesie (‘Il gatto’ di C. Baudelaire, ‘Donne e gatti’ di P. Verlaine, ‘Il gatto’ di G. Apollinaire, ‘Beppo’ di J. L. Borges, ‘Il gatto e la luna’ di S. Corazzini, e tante altre), racconti e romanzi (‘Il gatto nero’ di E. A. Poe, ‘Considerazioni filosofiche del Gatto Murr’ di E. T. A. Hoffmann, ‘Il gatto con gli stivali’ dei fratelli Grimm, ecc.), opere musicali (‘Duetto buffo di due gatti’ di G. Berthold, ‘Cats’ di A. Lloyd Webber) e dipinti (‘Ragazza con gatto nero’ di G. Boldini, ‘Bambina con gatto’ di Julie Manet, ‘Gatto che cattura un uccello’ di P. Picasso), il nostro piccolo felino ha riguadagnato il suo status di creatura magica e di intermediario tra il mondo dei vivi e le anime dell’aldilà. Secondo le filosofie New Age fiorite negli ultimi cinquant’anni, i suoi campi energetici ruoterebbero in senso antiorario, al contrario cioè di quelli degli umani, e questo li renderebbe in grado di attirare le energie negative senza rimanerne danneggiati, purificando nel contempo l’ambiente che ci circonda. Oggi come oggi il gatto è presente come animale da compagnia nelle case del 34,4% degli italiani, e dalle statistiche risulta che sia più amato dalle donne che dagli uomini (che invece preferiscono il cane). Questo non deve sorprenderci: abbiamo infatti visto come il gatto sia l’emblema del femminile, della luna, della notte; possiede della donna l’eleganza, l’astuzia, l’intuito e l’ambivalenza. Amante delle comodità ma con un’indole selvaggia, pigro ma agile e inafferrabile, profondamente affezionato ai suoi compagni di vita umani ma libero e indipendente. Come può una donna non riconoscere in esso il suo animale totemico? Purtroppo non è tutto rose e fiori. Ancora oggi, come barbaro retaggio dei secoli più bui, sopravvivono credenze superstiziose per le quali il gatto è presagio o addirittura apportatore di sventura. Si dice che i gatti possano rubare il respiro ai bambini nella culla, che si accuccino accanto a chi sta per morire, che picchiare di notte un gatto con la mano destra (ma perché poi si dovrebbe picchiarlo?) provochi la paralisi dell’intero braccio. Chi di noi, inoltre, non ha mai sentito dire che un gatto nero che attraversa la strada porta sfortuna? Bisognerebbe ridere di chi diffonde queste teorie. E se qualcuno tra voi conosce una persona che quando è al volante teme di vedersi passare davanti un piccolo felino dal pelo scuro, scrollate le spalle e rispondete come l’attore comico Groucho Marx: ‘Un gatto nero che vi attraversa la strada significa che tale animale sta andando da qualche parte.’

Letture consigliate

Susanne Schötz: “Il Linguaggio Segreto dei Gatti”

Allen e Linda Anderson: “Gatti, Compagni di Vita”

Paolo Barbieri: “Fantasy Cats Oracle – Oracolo dei Gatti”

Corrado Debiasi: “Il Monaco che Amava i Gatti”

Paul Leyhausen: “Il Comportamento dei Gatti”

Parole e silenzi: “Blackbird”

(…) Parole vane al vento / Ti accorgi in un momento/ Siamo soli è questa la realtà (…) _ Francesco Renga, “Angelo” https://amzn.to/3Itfg3X

Parole che uniscono e parole che dividono, parole che avvicinano e parole che allontanano. Taciute, pronunciate, udite oppure no. Parole scritte in attesa di una risposta che non arriva. Silenzio. Eccolo, il nodo. Quante e quali realtà possono nascondersi in un silenzio? Non è piacevole ricevere una replica negativa quando, attraverso le parole, cerchiamo un contatto, facciamo una domanda o ci confidiamo; ma è mille volte peggio non ottenere alcuna risposta. Non c’è frustrazione più grande. Il silenzio sgomenta, atterrisce, raggela, spaventa; ci rende impotenti. Perché non possediamo il potere di comprenderlo. Avvertiamo l’esistenza di un vuoto che paradossalmente può contenere qualsiasi cosa. Quando la comunicazione è unidirezionale, il conflitto non è risolvibile. Davanti a una risposta negativa possiamo ribellarci, controbattere, oppure cedere e accettarla, ma nulla ci disarma come il silenzio.

E’ questo il groviglio attorno a cui si abbarbica il dramma di “Blackbird”, che è un moderno bildungsroman sotto forma di romanzo epistolare sui generis. Nei romanzi epistolari, infatti, anche se quelle che leggiamo sono le lettere di un solo personaggio, esiste comunque un interlocutore che, si presume, condivide lo scambio di missive; prendiamo ad esempio “I dolori del giovane Werther” di Goethe: il protagonista, Werther, scrive all’amico Guglielmo, e, benché le lettere di quest’ultimo siano assenti, sappiamo che tra i due esiste un’effettiva corrispondenza (ne sono prova frasi come le seguenti: ‘Tu mi chiedi se mi devi mandare i miei libri. Caro, per amor di Dio te ne prego, lasciali dove sono‘ oppure ‘tu, penso che come al solito mi giudicherai esagerato‘_ Traduzione di Giuseppe Antonio Borgese). Nel caso di “Blackbird”, invece, abbiamo un protagonista, Malcolm, che scrive lettere a un destinatario che non risponde mai, l’enigmatico Keith, ed è proprio questo silenzio a costituire il maggior ostacolo contro cui Malcolm combatte, nonché un mistero da svelare, sia per lui che per il lettore. Amici fin dall’infanzia, Malcolm e Keith sono stati costretti a separarsi all’età di diciassette anni, quando il secondo (descritto dal protagonista come bello e seducente) ha scatenato un vespaio nel loro piccolo e bigotto villaggio di provincia ingravidando una donna già sposata e più grande di lui; è per sfuggire all’ostilità dei compaesani che il giovane si è dovuto trasferire altrove, e il distacco ha aperto una ferita nell’animo dell’amico, che da quel momento è rimasto a tormentarsi in una sofferta solitudine. Un’insopprimibile necessità di confidare a qualcuno il suo mal di vivere spinge quindi Malcolm a cercare, attraverso una corrispondenza epistolare, il recupero di quella preziosa compagnia ormai perduta. ma ogni sua lettera rimane senza risposta. Si mette così in moto un circolo vizioso, con il protagonista che cerca sollievo nella scrittura e viene immancabilmente deluso dal silenzio dell’amico, il che fa sì che la sua frustrazione aumenti ogni volta di più. Perché la non-risposta è avvilente, prostrante, logorante; fa morire pian piano la speranza, l’entusiasmo, e allo stesso tempo diventa un pretesto per scrivere ancora, per chiedere il motivo di quel silenzio. E’ una discesa verso l’annichilimento, tanto che a un certo punto Malcolm smette di fare domande. Ma l’ossessione mette presto radici nel suo cervello, e sebbene sappia che non riceverà risposta continua a scrivere. Se inizialmente Keith era per lui un eroe ribelle da ammirare, col tempo la sua nostalgia per le avventure passate cede sempre più il passo a considerazioni esistenziali e ad ampie divagazioni, fino a ridursi a un lunghissimo monologo in cui Malcolm racconta le tappe della sua personale presa di coscienza. Dove sembra che nulla abbia più senso, un senso deve esserci, e, se apparentemente Keith ha chiuso la porta che conduce fino a lui, da qualche parte ci sarà pure una chiave. Ad accompagnare Malcolm nel suo cammino ci sono vari personaggi; il traguardo finale è una crescita, e con essa la fine delle illusioni giovanili. Con “Blackbird” si ride e si piange, e quando sembra che l’età della spensieratezza sia terminata, ci si accorge che in realtà la vita continua, e che un nuovo inizio è sempre possibile.

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BIBLIOGRAFIA

_ Johann Wolfgang Goethe, “I dolori del giovane Werther”, Oscar Classici Mondadori https://amzn.to/48C6LON

Ab ovo ad Beatles

Humpty Dumpty sat on a wall / Humpty Dumpty had a great fall / All the king’s horses and all the king’s men / Couldn’t put Humpty together again.

“Humpty Dumpty sul muro sedeva / Humpty Dumpty dal muro cadeva / Tutti i cavalli e i soldati del Re / Non riusciranno a rimetterlo in pié.”

Forse non tutti i bambini italiani conoscono lo strano personaggio di nome Humpty Dumpty, ma di certo non c’è bambino inglese che ignori la filastrocca che lo vede protagonista. Le sue origini sono oscure, secondi alcuni studiosi risalgono addirittura al Medioevo, e inizialmente si trattava di un indovinello piuttosto che di una filastrocca. In pratica, basandosi sui versi citati all’inizio dell’articolo, bisognava capire “che cosa” fosse Humpty Dumpty, un essere che, una volta caduto a terra, risultava impossibile rimettere insieme, anche con l’intervento di tutti i cavalli e i soldati del Re (la traduzione, per esigenze metriche, dice rimettere in pié ma effettivamente “put together again” significa proprio rimettere insieme). Tra l’altro, “hump” significa gobba e “dumpty” tarchiato. La risposta era dunque “Un uovo” (che ha una forma rotonda e tozza, e che una volta rotto è irrimediabilmente irrecuperabile), ed è con le fattezze di un uovo antropomorfo che da sempre viene raffigurato.

Quest’illustrazione è opera di John Tenniel (1820-1914), e compare nella prima edizione di “Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò” scritto da Lewis Carroll nel 1871 (Through the Looking-Glass, and What Alice Found There). Nel seguito di “Alice nel paese delle meraviglie” (Alice’s Adventures in Wonderland) del 1865, la piccola protagonista incontra infatti, tra i tanti personaggi bizzarri che popolano il mondo oltre lo specchio, proprio il nostro Humpty Dumpty. Ma di questo parlerò in seguito. Ora continuiamo con le illustrazioni.

Qui Humpty Dumpty viene raffigurato proprio nel momento in cui Alice fa la sua conoscenza. L’immagine è un disegno di Peter Newell (1862-1924). I lineamenti della faccia e la forma delle mani richiamano alla mente i tratti di un rettile. Tra le altre opere illustrate da Newell ci sono Il Libro Sbilenco ( https://amzn.to/4bO1rum ) e La Caccia allo Squarlo ( https://amzn.to/3OOxCjJ ).

Questa illustrazione di Leonard Leslie Brooke (1862-1940) lo mostra invece nel momento della caduta (le cui conseguenze, lo sappiamo bene, saranno disastrose). Tra i libri da lui illustrati possiamo contare Nel Giardino del Corvo Tobia ( https://amzn.to/48sqjFo ), La Storia dei Tre Porcellini ( https://amzn.to/49mlHC0 ) e The Golden Goose ( https://amzn.to/42MBxmG ).

Qui Humpty Dumpty appare come un elegante gentiluomo britannico intento a leggere. L’autore di questa immagine è l’americano Milo Winter (1888-1956), illustratore di un gran numero di libri per ragazzi, ad esempio The Aesop for Children ( https://amzn.to/49p2OhN ), A Christmas Carol ( https://amzn.to/3UPxO5T ), Twenty Thousand Leagues Under the Sea ( https://amzn.to/49DOUIR ), The Trail Book ( https://amzn.to/4bPNGf1 ), Hans Andersen’s Fairy Tales ( https://amzn.to/3Tbl48M ).

Quest’ultima immagine è dell’inglese Mervin Peake (1911-1968), che oltre a pittore e illustratore è anche scrittore; la sua opera più famosa è la Trilogia di Gormenghast ( https://amzn.to/3SODqej )

Un aspetto curioso del personaggio di Humpty Dumpty è che non esiste alcuna prova che si tratti di un uovo, nonostante gli indizi ci spingano in quella direzione. La filastrocca non esplica mai chiaramente la sua natura, ma è universalmente “accettata” questa interpretazione. Tuttavia, come accade sempre quando qualcosa conserva un minimo di ambiguità, c’è chi ha ipotizzato che la soluzione dell’indovinello sia un’altra. Secondo alcuni, Humpty Dumpty sarebbe nientemeno che il re Riccardo III d’Inghilterra (1452-1485), ultimo rappresentante della dinastia degli York la cui morte per mano del futuro Enrico VII durante la Guerra delle Due Rose segnò il passaggio alla monarchia dei Tudor. Nel dramma storico a lui dedicato da William Shakespeare tra il 1591 e il 1952, il protagonista parla di se stesso con queste parole: (…) io non ho grazia fisica (…) io che sono di rozzo conio (…) io che sono privo di questa bella simmetria, frodato nel volto dalla natura simulatrice, deforme, imperfetto, spinto prima del tempo in questo mondo che respira, appena formato a metà e così storpio e fuori d’ogni sembianza comune che i cani mi abbaiano contro, quando passo zoppicando vicino a loro (…)non ho altro piacere per passare le ore che seguire la mia ombra al sole e meditare sulla mia deformità” (traduzione di Salvatore Quasimodo).

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Già nell’Enrico VI (parte terza), scritto intorno al 1588, erano presenti richiami alla deformità di Riccardo III. Dice la regina Margherita nel secondo atto, rivolgendosi a lui: “(…) Tu assomigli ad un orrendo mostriciattolo deforme, segnato dal destino per esser da tutti evitato, alla stessa guisa de’ rospi velenosi o delle orribili punture dei ramarri”. E nel terzo atto è ancora Riccardo III a dire di sé: “(…) la persuase [la natura, n. d. a.] ad atrofizzar il mio braccio coem un ramo disseccato; ad accumular sul mio dorso un’odiosa montagna, ove s’asside la deformità ad irrider il mio corpo; a foggiar l’una e l’altra mia gamba in disugual misura; a sproporzionarmi in ogni mia parte, a far di me una sorta d’ammasso caotico, un orsacchiotto male rifinito, che nulla più in sé reca delle sembianze materne” (traduzione di Maria Antonietta Andreoni D’Ovidio).

Sebbene l’opera di Shakespeare non sia un resoconto fedele della vita di Riccardo III e quindi non una fonte storica attendibile, non esistono dubbi sulla deformità fisica del sovrano (una scoliosi della colonna vertebrale è stata riscontrata in uno scheletro che, dopo numerosi studi, è risultato oltre ogni ragionevole dubbio essere il suo), così troverebbe senso il nomignolo “Humpty Dumpty”. Quanto alla caduta e all’impossibilità di essere “rimesso insieme”, Riccardo III cadde effettivamente da cavallo (chiamato Wall (Muro)? Questa ipotesi è molto improbabile), e si narra che il colpo di un alabardiere gli spinse l’elmo dentro il cranio; questo è un dettaglio non confermato, anche se l’analisi dei suoi resti riporta la presenza di ben otto ferite alla testa. Ad ogni modo non si può negare che fu impossibile rimetterlo insieme.

Secondo altre fonti, “Humpty Dumpty” è il soprannome dato a un cannone che venne usato durante la Guerra Civile Inglese del 1642-1649: questo conflitto vedeva contrapposti i Realisti, che sostenevano re Carlo I e lottavano per l’abolizione del Parlamento, e i Parlamentari, che al contrario intendevano spodestare il monarca. Nel 1648 la città di Colchester si trovava sotto il controllo dei Realisti, e per fortificarla questi ultimi posizionarono grandi cannoni sulle mura che la circondavano. Pare quindi che un cannone soprannominato “Humpty Dumpty” venisse collocato sulle mura il 15 giugno del 1648; la città era a quel punto cinta d’assedio dai Parlamentari, e fu proprio per evitare un loro eventuale assalto su larga scala che “Humpty Dumpty” si mise al lavoro. Sempre secondo queste fonti tuttavia il 14 (o il 15) luglio una palla di cannone sparata dai Parlamentari demolì il muro che sosteneva “Humpty Dumpty”, il quale si schiantò a terra, e a causa della sua mole non poté essere “rimesso insieme” nemmeno con l’ausilio di tutti i cavalli e i soldati del re. Il 28 agosto la città fu conquistata dai Parlamentari, che nell’anno successivo decapitarono il re, ponendo fine alla guerra. Anche in questo caso “Humpty Dumpty” pare essere tutto meno che un uovo, ma anche questa interpretazione non ha prove certe su cui basarsi. Per approfondire, ecco due saggi illuminanti:

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Come già detto, non esistono prove che avvalorino o che smentiscano queste interpretazioni, per cui si è liberi di pensarla come si vuole. Quel che è certo è che, uovo o non uovo, Humpty Dumpty col tempo è diventato un simbolo di fragilità, e in alcuni casi addirittura di hybris. Per quanto riguarda la fragilità, non si può non ricordare il romanzo “Incompreso” (Misunderstood) che Florence Montgomery scrisse nel 1869, e che contiene più di un’allusione alla celebre filastrocca. I piccoli protagonisti sono due fratellini orfani di madre, Miles e Humphrey (già in questo nome c’è un richiamo a Humpty Dumpty, come se si trattasse di predestinazione), affezionatissimi l’uno all’altro ma profondamente diversi tra loro per indole e stato di salute: Miles ha una predisposizione alle malattie polmonari, perciò è timoroso, prudente; Humphrey, che al contrario è sempre sano come un pesce, è un bambino esuberante, incontenibile, addirittura sfacciato. Nelle sue avventure si caccia spesso nei guai, e se lui se la cava il più delle volte con una semplice sbucciatura di ginocchio o inezie simili, Miles (che in qualche modo è sempre coinvolto nelle scorribande del fratello maggiore) finisce ogni volta per ammalarsi seriamente. Dietro la vivacità di Humphrey si nascondono però sensibilità e sofferenze profonde: l’adorata madre gli manca tantissimo, e nella sua irrequieta esuberanza si cela un larvato istinto di auto-distruzione; è come una continua sfida alla morte. Un giorno, questo suo impulso lo spinge a un gioco estremamente pericoloso e dall’esito fatale: cadendo da un ramo Humphrey si procura ferite mortali, e durante la sua dolorosa agonia confida al padre di essere felice al pensiero di poter raggiungere la madre in Paradiso. La filastrocca di Humpty Dumpty viene citata in due occasioni: la prima volta i due bambini la cantano insieme in un pomeriggio di sole, giocando spensierati, la seconda volta è Miles a recitarla, dietro richiesta del padre; ovviamente Humpty Dumpty è Humphrey, che dopo la caduta non potrà mai più essere “rimesso insieme”. In questo contesto, sono la delicatezza e la vulnerabilità del piccolo protagonista ad essere messe in risalto nel parallelo che si crea tra la vicenda del bimbo e quella dell’uovo. Qui la celebre nursery rhyme diventa quindi un compendio della caducità umana.

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E’ solo nel 1871, con Through the Looking-Glass and What Alice Found There (“Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò”), che Humpty Dumpty acquista una propria personalità. Siamo nel secondo libro che Carroll dedica alla piccola Alice, dove la protagonista incontra diversi personaggi di filastrocche e indovinelli, ad esempio Tweedledum e Tweedledee, il Leone e l’Unicorno, e, appunto, Humpty Dumpty. Un intero capitolo è dedicato all’incontro tra i due, e il loro dialogo è uno dei più interessanti e curiosi per gli studiosi di semantica e di linguistica. Qui Humpty Dumpty è chiaramente un uovo antropomorfo: “‘Più mi avvicino, e più sembra che l’uovo si allontani'” dice Alice nel capitolo precedente (il quinto); è narrato poi, nel sesto capitolo, “(…) l’uovo non fece che diventare sempre più grosso e assumere un aspetto sempre più umano: era ormai giunta a pochi metri di distanza, quando Alice si accorse che aveva occhi, naso e bocca” (la traduzione è di Milli Graffi). Il carattere di Humpty Dumpty si rivela fin da subito arrogante e indisponente: offeso per essere stato paragonato a un uovo, replica: “‘(…) il mio nome significa la forma che ho – una gran bella forma, tra l’altro'”. Emerge qui il fortissimo legame tra il personaggio e le teorie linguistiche che esporrà in seguito; inoltre esso stesso allude alla filastrocca che lo vede protagonista, con una sorta di tragica ironia (percepibile da chiunque conosca il destino che lo attende): “‘(…) Ah, se dovesse mai capitarmi di cadere – il che è assolutamente improbabile – ma se dovesse capitarmi (…) Se mi capitasse di cadere (…) il Re mi ha promesso – ah, puoi impallidire finché ti pare! Non te l’aspettavi, eh? Il Re mi ha promesso – lui in persona – di – di – ‘”, quando Alice lo interrompe, provocando in lui un nuovo scoppio di collera. Questo è Humpty Dumpty prima della caduta: “‘(…) un altro come me magari non l’incontri più; e per dimostrarti che non pecco d’orgoglio, ti concedo di stringermi la mano!'”, dice, palesando la sua superbia proprio mentre la nega verbalmente; l’accostamento con Lucifero, l’angelo caduto a causa della sua superbia è inevitabile. In Through the Looking-Glass ad ogni modo non assistiamo alla sua rovina, ma all’esposizione della sua personale teoria sul linguaggio: “‘Quando io uso una parola’ disse Humpty Dumpty con un certo sdegno, ‘quella significa ciò che io voglio che significhi – né più né meno’. ‘La questione è’ disse Alice, ‘se lei può costringere le parole a significare così tante cose diverse’. ‘La questione è’ replicò Humpty Dumpty, ‘chi è che comanda – ecco tutto’.” Il significato, secondo questa teoria, è in mano a chi detiene il potere. Ma è ovvio che, se fosse così, non ci si potrebbe capire l’un l’altro. Scrive il filosofo e logico austriaco Ludwig Wittgenstein nelle sue Ricerche Filosofiche che il linguaggio non può essere “privato”, bensì “pubblico”, ovvero basato su regole condivise dalla pluralità degli individui che compongono una società.

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Dobbiamo però ricordare che ci troviamo, con Alice, nell’universo che sta al di là dello specchio, dove quindi i valori vengono capovolti (abbiamo già visto come qui i nomi propri debbano avere un significato, mentre quelli comuni possano assumerne un’infinità – a seconda di chi comanda!). Per quanto appaiano affascinanti e stimolanti (“‘So spiegare tutte le poesie che siano mai state inventate – e anche parecchie di quelle che non sono ancora state inventate'”), le teorie linguistiche di Humpty Dumpty funzionano soltanto nel suo mondo all’incontrario; non è un caso che lui e Alice fatichino a comunicare. Questa anarchia del linguaggio diventerà tuttavia una delle basi delle avanguardie novecentesche, e James Joyce trarrà ispirazione proprio da Carroll e dallo stesso Humpty Dumpty per il suo Finnegans Wake. Anche se, è inutile specificarlo, tali teorie sono inapplicabili nel mondo reale, a causa della loro arbitrarietà e della loro fragilità: una fragilità simile a quella del guscio di un uovo.

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Fragilità, ho detto. Già, perché l’uovo è simbolo di fragilità. Ma non solo. E’ simbolo anche di fertilità, di purezza e di perfezione. Il mito orfico della creazione vede la Nera Notte Alata che, fecondata dal Vento, depone un uovo d’argento nell’Oscurità, da cui esce Fanete, detto anche Protogono, ossia “il primo nato” (secondo alcune varianti del mito sono Ananke – la Necessità e Crono – il Tempo a concepirlo). L’idea della nascita del mondo da un uovo primordiale è presente anche negli antichi miti polinesiani, giapponesi, indiani, cinesi e slavi, poiché secondo queste culture esso, nella perfezione della sua forma, rappresenta il tutto, principio primo e unico, da cui si origina la vita. E’ probabile che la sua somiglianza con i testicoli abbia contribuito al suo legame simbolico con la fertilità, ma l’uovo è anche messo spesso in relazione con la resurrezione (Cristo risorge dal sepolcro come il pulcino esce dall’uovo, da qui l’usanza ancora presente ai giorni nostri delle uova di Pasqua). Per quanto concerne l’alchimia, l'”uovo filosofale” è la materia primigenia che porta in sé il futuro della maturazione: guscio, albume e tuorlo corrispondono a sale, mercurio e zolfo, che combinati insieme darebbero alla luce la pietra filosofale. Esistono ancora credenze popolari che utilizzano le uova come strumenti di divinazione, e che considerano un segno di buon auspicio rompere un guscio senza rompere il tuorlo. Insomma, in relazione a queste considerazioni, Humpty Dumpty acquista nuovi significati, e la sua caduta assurge a simbolo di catastrofe non più solo individuale ma universale.

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Ma torniamo a James Joyce e al suo Finnegans Wake citati in uno dei paragrafi precedenti. “‘Impenetrabilità!‘”, è la parola d’ordine di Humpty Dumpty in Through the Looking-Glass, e non esiste termine più adatto per definire l’ultima opera di Joyce, Finnegans Wake appunto. La gestazione del più “intraducibile” romanzo nella storia della letteratura va dal 1923 al 1938, e per quanto riguarda il titolo Joyce prende spunto da una ballata popolare della sua terra, Finnegan’s Wake; curiosamente, il protagonista della ballata muore cadendo da un scala, mentre trasporta dei mattoni destinati a costruire un muro: durante la veglia funebre, però, nasce tra la vedova e gli amici del defunto una violenta discussione, che finisce per risvegliare il morto. La vicenda assume così un valore altamente allegorico, con l’Uomo che si alza (nascita), sale la scala (crescita), cade (morte) e si risveglia (resurrezione). Il legame con Humpty Dumpty risulta quindi duplice: da un lato abbiamo entrambi i personaggi (Finnegan e Humpty Dumpty) che cadono per colpa di un muro, dall’altro abbiamo un parallelo tra il ciclo di nascita – morte – rinascita e la figura dell’uovo, simbolo (come abbiamo visto), per i cristiani, della resurrezione di Gesù. Il romanzo di Joyce, o meglio, il suo protagonista, si ricollega al racconto di Carroll anche attraverso un altro particolare: Finnegan viene descritto come un uomo con folti baffi da tricheco, e il Tricheco è, insieme al Falegname, il personaggio principale di una filastrocca narrata in Through the Looking-Glass. Ma in tutto il romanzo delirante e polisemantico di Joyce ci sono accenni a Carroll, con i suoi nonsense, le sue allitterazioni, i suoi neologismi, le sue portmanteau-words, ovvero parole-baule, termini composti che contengono molteplici significati. “Googoo goosth“, si legge a un certo punto in Finnegans Wake. Perché ho voluto riportare proprio questa espressione? Facciamo un salto temporale di una trentina d’anni e immergiamoci nelle atmosfere psichedeliche dei favolosi anni Sessanta!

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Nel novembre del 1967 esce una delle canzoni più visionarie e geniali dei Beatles, per scrivere la quale John Lennon attinge a piene mani da Through the Looking-Glass. Il suo testo è così enigmatico da spingere gli studiosi a una frenetica caccia a tutti i possibili e immaginabili significati nascosti; il suo titolo? I am the Walrus (“Io sono il Tricheco”_ Ricordate i baffoni da tricheco di Finnegan?). Sostengono alcuni che presso le popolazioni eschimesi il tricheco sia un simbolo di morte (e, se così fosse, questo aggiungerebbe credito alla leggenda metropolitana secondo cui nel 1966 Paul McCartney sarebbe morto e sostituito da un sosia _ vd. mio articolo “Nessuno fu salvato”), ma c’è una interpretazione alternativa che poggia su basi più solide: nel 2006 viene messo all’asta un quaderno appartenuto a John Lennon all’età di dodici anni, dove appare una sua illustrazione della già citata filastrocca The Walrus and the Carpenter (“Il Tricheco e il Falegname”), composta proprio da Carroll e presente in Through the Looking-Glass. Ma le suggestioni Carrolliane non si fermano qui. Leggiamo il ritornello della canzone:

I am the eggman
They are the eggmen

I am the walrus
Goo goo ga’joob

(Traduzione: “Io sono l’uomo-uovo/ Loro sono gli uomini-uova/ Io sono il tricheco/ Goo goo ga’joob”)

Chi è l’uomo-uovo, se non il nostro Humpty Dumpty? Anche in questo caso c’è chi propone un’altra interpretazione, addirittura identificandosi con l’eggman: si tratta di Eric Burdon, leader del gruppo musicale The Animals_ “L’Eggman ero io: alcuni dei miei amici mi chiamano ‘Eggs’. Il soprannome mi è rimasto appiccicato in seguito a un’esperienza vissuta con una ragazza giamaicana (…) Raccontai l’episodio a John una sera, durante un party a Mayfair con un gruppetto di bionde e una ragazza asiatica. ‘Dai, scegline una, Eggman!’, ridacchiò John dietro i suoi occhialetti tondi (…)” Ma, per quanto possa essere autentica, questa coincidenza non spiega gli altri numerosi accenni al mondo di Carroll: nella filastrocca The Walrus and the Carpenter, c’è un verso in cui il Tricheco si chiede whether pigs have wings (“se i maiali abbiano le ali”), così come nella canzone dei Beatles compare la frase See how they run like pigs from a gun
See how they fly
(“Guarda come corrono come maiali da una pistola guarda come volano”). Inoltre è noto l’amore di Lennon per l’autore di Alice’s Adventures in Wonderland e Through the Looking-Glass and What Alice Found There: entrambi fanno largamente uso di un linguaggio onirico, surreale, basato su giochi di parole e associazioni di pensieri. Ce n’è abbastanza per ritenersi certi che l’Eggman sia proprio Humpty Dumpty. E quel Goo goo ga’joob, così simile al googoo goosth di Joyce? Ebbene, anche a questo enigma è stata trovata una soluzione: “Goo goo ga’joob” sarebbe nientemeno che il grido lanciato da Humpty Dumpty nel momento della caduta. Come si sia arrivati a questa conclusione rimane un mistero, ma grazie a Carroll abbiamo imparato che il linguaggio può essere anche un gioco, e che oltre al nostro limitato universo se ne nascondono infiniti altri al di là dello specchio.

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“No, no, ch’io non mi pento”

“Ricordo il quadro vivente che vidi una volta. Un bellissimo giovane, proprio un beniamino delle ragazze: scherzava con alcune fanciulle, tutte in quell’età pericolosa in cui non sono né donne né bambine. Tra l’altro si divertivano a saltare un fosso. Il giovane stava presso all’orlo di questo fosso e le aiutava nel salto, e così facendo cingeva loro la vita, le sollevava leggermente per aria e le deponeva dall’altra parte. Era uno spettacolo graziosissimo; godetti tanto a guardar lui come a guardar le fanciulle. E pensavo a Don Giovanni. Sono esse stesse che gli corrono nelle braccia, egli le afferra e, non meno svelto, non meno agile, le depone dall’altra parte del fosso della vita.”

   (da S. Kierkegaard, “Don Giovanni. Gli stadi erotici immediati, ovvero il musicale erotico”) https://amzn.to/3Sgfb8r

Quando giù all’onda sotterranea scese/ Don Giovanni, e a Caronte ebbe pagato/ L’obolo, un triste mendicante, l’occhio/ Come Antìstene fiero, afferrò i remi/ Con braccio fermo, da vendicatore./ Come d’offerte vittime una grande/ Greggia, coi seni penduli e le vesti/ Dischiuse, sotto il nero firmamento/ Donne si contorcevano traendo/ Dietro di lui un muggito prolungato./ Ridendo gli chiedeva Sganarello/ La paga, e Don Luigi, con il dito/ Tremante, ai morti erranti sulle rive/ Indicava quel figlio tanto audace/ Che rise della sua candida fronte./ Rabbrividendo sotto le gramaglie,/ La casta e magra Elvira, accanto al perfido/ Sposo che fu suo amante, domandargli/ Sembrava quasi un supremo sorriso/ In cui brillasse tutta la dolcezza/ Del primo giuramento. Dritto e fermo/ Nell’armi, divideva il nero flutto/ Alto un uomo di pietra sorreggendo/ La barra del timone. Ma l’eroe/ Calmo guardava, chino sulla spada,/ La spuma, e disdegnava altro vedere.

  (da C. Baudelaire, “I fiori del male”, Don Giovanni agli Inferi) https://amzn.to/3HDKMfp

Non si picca se sia ricca/ Se sia brutta, se sia bella/ Purché porti la gonnella/ Voi sapete quel che fa”   

 (da Lorenzo Da Ponte, “Il dissoluto punito, ossia il Don Giovanni”) https://amzn.to/3UiVy20

Doveva possedere una ben straordinaria carica seduttiva il leggendario Don Juan Tenorio, ovvero Don Giovanni, se, oltre alle migliaia di donne che conquistò, riuscì per secoli e secoli ad ammaliare fior di artisti e di intellettuali che si ispirarono a lui per le loro opere. Drammaturghi, romanzieri, poeti, filosofi e compositori vollero celebrare le sue gesta eroiche e soprattutto “erotiche”, poiché Don Giovanni, il libertino di Siviglia, questo era e ancora è: Amore e Morte, Eros e Thanatos. Approfondirò però più avanti tale questione. Cominciamo invece dall’inizio. Le origini del mito del diabolico ammaliatore si perdono nella notte dei tempi, tanto che viene da pensare che sia sempre esistito. Azzardando un’enorme e rischiosa forzatura, si potrebbe perfino ravvisare nel dio Zeus, il cui culto si sviluppò intorno al secondo millennio a. C., un prototipo del nostro donnaiolo spagnolo, per l’insaziabile appetito sessuale che li accomuna. Secondo il filosofo danese Søren Kierkegaard l’idea del Don Giovanni “appartiene al cristianesimo e, attraverso il cristianesimo, al medioevo”; così giustifica la sua ipotesi: “Se io ora penso all’erotico sensuale come principio, come forza, come regno, determinato dallo spirito, cioè, determinato in modo che lo spirito lo escluda, se lo penso concentrato in un unico individuo, ho il concetto della genialità erotico-sensuale. Questa è un’idea che i greci non avevano, che è stata introdotta nel mondo soltanto dal cristianesimo, anche se solo indirettamente”. Quello che è certo è che nel medioevo esisteva una figura che per alcuni versi ne era precorritrice: era il giovane cavaliere innamorato, protagonista di farse e leggende, una marionetta come tante altre, priva di spessore e di drammaticità. Il primo a dare concretezza a Don Giovanni, mettendo nero su bianco le sue avventure e a trasformarlo in “personaggio” (sia pure fittizio), è Tirso de Molina, che nel 1632 scrive la commedia El burlador de Sevilla y convidado de piedra.

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La trama è a grandi linee quella che, con alcune varianti, verrà ripresa anche da vari artisti successivi: Don Giovanni, un licenzioso avventuriero, dopo una serie di inganni, seduzioni, travestimenti e l’uccisione del padre di una delle sue donne, si scontra con la statua di quest’ultimo, e senza alcun rispetto per il defunto si prende gioco di lui, e addirittura invita a cena la statua stessa (il convitato di pietra), per poi ricambiare il favore. La commedia si conclude con la statua che, rivelatasi simbolo della giustizia divina che pretende il castigo del burlador, trascina il peccatore tra le fiamme dell’inferno. In quest’opera teatrale, il personaggio di Don Giovanni ha già tutte le caratteristiche che lo renderanno immortale: il fascino, il coraggio, la temerarietà, ma c’è anche qualcosa di più profondo: una costante infatti del suo temperamento, oltre alla ben nota lussuria, è, fin da questa sua prima “apparizione”, l’empietà, la scelleratezza, il disprezzo per ciò che è sacro (non dobbiamo dimenticare che Tirso de Molina era un ecclesiastico). Se nel Settecento, secolo dei Lumi, questa peculiarità finirà per passare in secondo piano (senza tuttavia sparire), nel 1665, quando Molière scrive la tragicommedia in prosa Dom Juan ou le Festin de pierre, la tematica è ancora ben presente e fortemente sentita; è soprattutto la natura sacrilega del suo Don Giovanni a condurlo alla morte, non tanto il suo insaziabile appetito sessuale.

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La vicenda non si discosta molto da quella messa in scena dal suo predecessore spagnolo: anche qui donne e ragazze sedotte e abbandonate, intrighi, duelli, e infine la statua vendicatrice. Fanno però la loro comparsa una schiera di personaggi comici che controbilanciano quelli nobili e tragici: il servo buffonesco Sganarello, ad esempio (erede diretto degli zanni della commedia dell’arte), che non nutre alcuna stima per il suo padrone ma lo teme, la coppietta di contadini che, nella loro ignoranza, storpiano le parole (lei ingenua e civettuola, lui pavido e geloso), la paesana invidiosa, e il creditore che, per quanto faccia, non riesce a riavere i soldi prestati all’astutissimo Don Giovanni, maestro nell’arte di liberarsi degli scocciatori. In questa commedia c’è anche il vecchio padre del protagonista, ed è proprio nelle scene in cui i due si fronteggiano che il libertino mostra il suo lato peggiore e sacrilego. Già nel terzo atto, discutendo di religione con Sganarello, afferma che la sua unica fede è che “Due e due fanno quattro (…) e che quattro e quattro fanno otto” (la traduzione è mia); inoltre, a un devoto eremita che chiede l’elemosina, risponde che gli regalerà una moneta d’oro purché egli bestemmi di fronte a lui (al rifiuto del povero, Don Giovanni gliela dona ugualmente, in quanto si tratta pur sempre di un personaggio che possiede una sua nobiltà e un forte senso dell’onore). Io credo che in qualche modo sia opportuno considerare questo lato del carattere di Don Giovanni senza preconcetti o bigottismi; nel contesto in cui il personaggio vive e agisce, la cattolicissima Spagna (o, nel caso di Molière, la Sicilia), il suo atteggiamento ribelle ed empio può essere visto come un atto di coraggio. In fondo, chi non è credente, se da un lato non teme la giustizia divina, dall’altro rinuncia anche al conforto che la fede può dare. Per questo motivo il comportamento del Don Giovanni di Molière ne fa, almeno fino al quarto atto, un “eroe”, anche se sui generis. Ma la tragica svolta (e la vera novità rispetto a de Molina) avviene nel quinto e ultimo atto; è qui che assistiamo alla sua definitiva degradazione, quella che gli costerà la discesa agli inferi. La finta conversione, recitata davanti al padre, e il successivo elogio dell’ipocrisia segnano il suo destino (e anche quello della commedia stessa, che infatti verrà messa al bando non molto tempo dopo). A Sganarello che esclama scandalizzato: “Come? Voi non credete a niente di niente, e volete tuttavia erigervi a uomo di sani principi morali?” il libertino risponde: “Perché no? Ce ne sono tanti come me, che si impicciano di questo mestiere, e che si servono della stessa maschera per ingannare il mondo! (…) L’ipocrisia è un vizio che va di moda, e tutti i vizi che vanno di moda passano per virtù”. L’ultima malefatta di Don Giovanni lo condanna definitivamente. “Padrone (…) questo è molto peggio del resto, e vi preferirei di gran lunga come eravate prima. Ho sempre sperato nella vostra salvezza; ma è adesso che non ci spero più; e credo che il Cielo, che vi ha sopportato fin qui, non potrà assolutamente tollerare quest’ultimo orrore”. E infatti è così che si conclude la commedia: la statua afferra la mano di Don Giovanni per trascinarlo nel fuoco, e in scena rimane solo Sganarello, disperato per non aver ricevuto il suo sudato salario. Scrive Sandro Bajini (drammaturgo, traduttore e scrittore dei giorni nostri): “La società devota non viene più derisa nelle persone, ma si sente offesa nei sentimenti. Invano il diavolo si è fatto frate, e Molière, diventando a sua volta ipocrita, ha affidato la provocazione a un personaggio che, essendo ateo, deride i devoti per istituzione. Ma il linguaggio di Don Giovanni non ha indulgenze e Molière non prende sufficientemente le distanze dal suo personaggio. Lo manda all’inferno ma, per così dire, senza condannarlo in proprio. Viene il sospetto che l’irrisione di Don Giovanni per le cose sante sia l’irrisione di Molière per chi crede in esse (…) Benché il poeta non lesini gli elementi farseschi, la ferocia rimane intatta in molte situazioni, e la famosa scena in cui Don Giovanni invita il mendicante a bestemmiare è sconvolgente: Molière la sopprime alla seconda rappresentazione. Il sacrificio non basta, il resto dell’opera parla a sufficienza”. 

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Se la commedia di Molière è legata a doppio filo a quella di Tirso de Molina, esiste un dramma per musica con protagonista Don Giovanni (scritto nel 1651 da Giovan Battista Andreini e intitolato Il nuovo risarcito convitato di pietra), che, nonostante abbia più o meno la stessa trama delle due opere già analizzate, la inserisce in un contesto tipicamente barocco, con tanto di personaggi allegorici (Furore, Vendetta, Punizione, ecc.) o tratti addirittura dalla mitologica classica (Giove, Vulcano, i Titani e altri). Questa “cornice” fiabesca a volte si intreccia alle avventure di Don Giovanni, a volte è invece un mero pretesto per intermezzi musicali e balletti, tanto cari al teatro del Seicento. Di certo uno spettacolo di questo tipo doveva rappresentare una vera delizia per gli occhi e le orecchie del pubblico di allora; oggi, probabilmente, questa ridondante sovrapposizione di livelli narrativi, insieme ai relativi “inserti” celebrativi, risulterebbe indigesta. Il nuovo risarcito convitato di pietra nasce come opera barocca, e nei confini del barocco rimane intrappolata; questo Don Giovanni, novello Titano, si rivela troppo distante dalla nostra sensibilità, e troppo poco umano per coinvolgerci o affascinarci. Questo, tuttavia, non ha impedito al regista Massimo Machiavelli di portare in scena, quattro anni fa, (con qualche taglio e con la musica del nostro contemporaneo Umberto Cavalli) il Don Giovanni creato da Giovan Battista Andreini; è stata un’operazione coraggiosa, e in un certo senso rischiosa, ma, fortunatamente, grazie all’intelligenza e all’impegno di chi vi ha lavorato, è riuscita a ottenere un discreto successo, con grande soddisfazione degli autentici appassionati delle varie forme di teatro attraverso i secoli.

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Sono passati una settantina di anni dalla prima messa in scena del Dom Juan di Molière (e più di ottanta da quella del Nuovo risarcito) quando Carlo Goldoni scrive il suo Don Giovanni Tenorio. Siamo infatti nel 1735, all’alba dell’Illuminismo, e l’autore dichiara fin dalla prefazione alla versione stampata di volersi allontanare dai cliché dei suoi predecessori: il protagonista della sua opera deve essere “realistico”, non ci saranno buffonerie da commedia dell’arte, e nemmeno statue che vengono invitate a cena. Il suo Don Giovanni non ha nulla di eroico, anzi, è addirittura un vigliacco, e il castigo finale è necessario affinché (sempre secondo Goldoni) nessuno degli spettatori si illuda di poter condurre una vita dissoluta senza pagarne le conseguenze. Ovviamente non mancano i tradimenti, le seduzioni, e nemmeno le situazioni comiche, ma tra questa tragicommedia e le precedenti si apre un vero e proprio abisso, che il pubblico dell’epoca non gradisce. In Andreini, Don Giovanni era lontano anni luce dal mondo degli umani, in Goldoni, viceversa, si rivela fin troppo umano. Probabilmente, per conquistare definitivamente la sua consacrazione a mito immortale il cui fascino non avrà mai fine, Don Giovanni ha bisogno che qualcuno lo collochi in quella dimensione che sta tra la Terra e il Cielo, tra l’umano e il divino (o, meglio, il diabolico), tra pulsione di vita e pulsione di morte; in breve, come anticipato, tra Eros e Thanatos. Evidentemente, il pur validissimo e moderno Goldoni non possedeva la necessaria genialità, oppure i tempi non erano ancora maturi. Dovrà passare ancora qualche anno.

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Antefatto: siamo nel 1787, a Venezia, e al Teatro Giustiniani di San Moisè va in scena Don Giovanni o sia il convitato di pietra, opera lirica composta da Giuseppe Gazzaniga su libretto di Giovanni Bertati. E’ il 5 febbraio, e fin dalla prima sera l’opera riscuote un enorme successo, tanto che nei due anni successivi verrà rappresentata nei teatri di tutto il nord Italia. La trama riprende a grandi linee la commedia di Tirso de Molina, i vari tentativi di seduzione, il duello con il Commendatore e la statua di quest’ultimo che punisce il libertino.

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Siamo sempre nel 1787. Per effetto dell’entusiasmo suscitato dal lavoro di Gazzaniga, il Nationaltheater di Praga commissiona un nuovo Don Giovanni a Wolfgang Amadeus Mozart. Come librettista viene scelto l’abate Lorenzo Da Ponte, che vi lavora febbrilmente, essendo contemporaneamente impegnato nella scrittura di altri due libretti. Anche Mozart, che per motivi economici deve comporre più musica possibile, si dedica al nuovo compito a un ritmo forsennato, perché l’opera deve necessariamente andare in scena in concomitanza col passaggio della duchessa di Toscana per la città di Praga. Scrive Claudio Casini nel suo Amadeus, biografia del celebre compositore: “Il tempo stringeva, e Mozart e Da Ponte ricorsero al più diffuso metodo per scrivere rapidamente un’opera: il plagio. Copiarono a man salva dal libretto intitolato Il Convitato di Pietra che Giovanni Bertati aveva scritto per un musicista minore, Giuseppe Gazzaniga: l’opera era stata rappresentata nel gennaio (sic!) di quell’anno 1787 a Venezia. Il nuovo libretto ebbe il titolo di Don Giovanni o il dissoluto punito“.

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La trama è pressoché identica: tre donne ingannate da Don Giovanni, i compagni di due di esse e il fantasma del Commendatore ucciso dal protagonista che gridano vendetta, e la vicenda che si conclude seguendo il solito copione, con Don Giovanni che viene inghiottito dalle fiamme dell’inferno. Apparentemente non v’è alcuna novità. Se non fosse che la musica di Mozart raggiunge qui una tale perfezione, una così indescrivibile potenza ultraterrena, che il personaggio di Don Giovanni viene trasfigurato, quasi perde la sua identità individuale per farsi assoluto, sintesi ultima dei succitati Eros e Thanatos. “L’Ouverture del Don Giovanni inizia sugli ampi, solenni accordi, neri come barbagli di fuoco, della Punizione mediante la Morte. Accordi (…) simili -ma consonanti- a quelli che, dissonanti, sottolineeranno l’ingresso del Commendatore, il Convitato di Pietra, nella sala della cena funebre (…) L’opera che inizia è una cruda tragedia. Ma (…) ecco irrompere all’improvviso, brillante e terso, uno spensierato uragano di desiderio, la vita lanciata all’inseguimento(…) Don Giovanni (…) ha iniziato la sua corsa(…) Fin dalla sua prima espressione orchestrale, questa Musica dà quindi l’impressione di un irrompere; è nata con il potere di sedurre e di soggiogare. Ci sentiamo pervasi e trascinati dalla sua forza, carica di una straordinaria tensione (…) Una simile tensione quasi travalica l’umano (…) Se in certi momenti è paragonabile alla misteriosa concitazione del delirio, in altri può essere vista come la potenza naturale del fiotto di sangue che sgorga da un petto (…) Don Giovanni non ha tregua; l’amore non ha limiti; la felicità e il dolore non avranno né risoluzione né termine, se non in Don Giovanni stesso e nella sua esistenza”. Così scrive il poeta e romanziere francese Pierre-Jean Jouve a proposito dell’Ouverture del Don Giovanni mozartiano (Ouverture che, ricordiamolo, Mozart compone di getto la notte prima dello spettacolo).

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A Praga l’opera ottiene un successo straordinario (“Il 29 ottobre è andata in scena la mia opera Don Giovanni, accolta con il più vivo entusiasmo. Ieri è stata rappresentata per la quarta volta (a mio beneficio)”, scrive Mozart in una lettera all’amico Gottfried Von Jacquin il 4 novembre del 1787).

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“(…) vorrei che i miei buoni amici (…) potessero essere presenti, anche una sera soltanto, per prendere parte alla mia gioia. Ma forse verrà rappresentata anche a Vienna? Me lo auguro.” In effetti, nel maggio del 1788, l’opera va in scena anche a Vienna, ma sfortunatamente non incontra il favore del pubblico della capitale austriaca. Le due versioni (quella praghese e quella viennese) presentano alcune differenze; Mozart infatti, consapevole della mentalità conservatrice e, in qualche modo, più “chiusa” degli austriaci, opera alcune modifiche e taglia qualche scena, in particolare il sestetto finale che “celebra” la morte di Don Giovanni. Inutilmente. All’imperatore Giuseppe II e al suo pubblico il Don Giovanni non va a genio, almeno inizialmente. Scrive l’abate Da Ponte nelle sue Memorie: “Io non avea veduto a Praga la rappresentazione del Don Giovanni; ma Mozzart (sic!) m’informò subito del suo incontro maraviglioso, e Guardassoni mi scrisse queste parole: ‘Evviva Da Ponte, evviva Mozzart. Tutti gli impresari, tutti i virtuosi devono benedirli. Finché essi vivranno, non si saprà mai che sia miseria teatrale.’ L’imperadore mi fece chiamare e, caricandomi di graziose espressioni di lode, mi fece dono d’altri cento zecchini, e mi disse che bramava molto di vedere il Don Giovanni. Mozzart tornò, diede subito lo spartito al copista, che si affrettò a cavare le parti, perché Giuseppe doveva partire. Andò in scena, e… deggio dirlo? il Don Giovanni non piacque! Tutti, salvo Mozzart, credettero che vi mancasse qualche cosa. Vi si fecero delle aggiunte, vi si cangiarono delle arie, si espose di nuovo sulle scene; e il Don Giovanni non piacque. E che ne disse l’imperadore? ‘L’opera è divina; è forse forse più bella del Figaro, ma non è cibo pei denti de’ miei viennesi.’ Raccontai la cosa a Mozzart, il quale rispose senza turbarsi: ‘Lasciam loro tempo da masticarlo.’ Non s’ingannò. Procurai, per suo avviso, che l’opera si ripetesse sovente: ad ogni rappresentazione l’applauso cresceva, e a poco a poco anche i signori viennesi da’ mali denti ne gustaron il sapore e ne intesero la bellezza, e posero il Don Giovanni tra le più belle opere che su alcun teatro drammatico si rappresentassero”.

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Al di là della pur interessante aneddotica circa le fortune o le sventure che ebbero le rappresentazioni dell’opera all’epoca di Mozart, quella che rimane ancora oggi una verità incontrovertibile è che solo grazie al compositore di Salisburgo il Don Giovanni diventa Don Giovanni, assurge all’immortalità, si fa Ideale quanto più è percepibile il suo lato carnale. Al suo confronto, il Burlador di de Molina, l’empio ipocrita di Molière, il Titano di Andreini, il vigliacco di Goldoni e il donnaiolo di Bertati si riducono a più o meno riuscite variazioni sul tema del peccatore irredento. E’ solo per mano di Mozart che Don Giovanni prende letteralmente vita e ne gode tutti i piaceri, mai sazio, mai in pace, quasi in lotta contro il tempo: egli vuole possedere ogni donna, ma nel momento in cui l’ha posseduta non ha nemmeno modo di gloriarsene, che l’istinto lo spinge già verso la donna successiva. Ecco perché parlavo di Eros e Thanatos: Don Giovanni si auto-distrugge ogni volta che porta a termine una nuova conquista; nell’amplesso è un effondersi di forza demoniaca, di energia cosmica e generatrice, di gioia sublime, e nell’orgasmo si auto-annulla, si esaurisce, muore. Ma Don Giovanni non può morire per amore, e allora ecco che il desiderio si riaccende, la vita ricomincia, c’è ancora una nuova femmina da sedurre… Qualcuno può obiettare (e in effetti qualcuno ha obiettato) che durante l’opera mozartiana, il protagonista in realtà fallisce in tutti i suoi tentativi di conquistare i personaggi femminili (Donna Anna, Donna Elvira, Zerlina, e altre tre donne che non appaiono mai sul palcoscenico, ovvero “Una bella dama” che, dice Don Giovanni “meco al casino questa notte verrà”, la cameriera di Donna Elvira, e “una fanciulla bella, giovin, galante” incontrata nei pressi del cimitero). A questo proposito il libretto di Da Ponte è piuttosto ambiguo: Donna Anna entra in scena ad opera appena iniziata, dopo che Don Giovanni ha tentato un approccio di tipo sessuale con lei, ma se l’impresa sia riuscita o no è un mistero che rimane irrisolto (diversi studiosi hanno cercato di svelare l’arcano basandosi sul testo e sulla musica, così come si sono interrogati sui reali sentimenti che Donna Anna prova per il protagonista). Per quanto riguarda Donna Elvira, è lei stessa ad informarci di essere stata sedotta e addirittura sposata prima di essere abbandonata; durante lo svolgimento dell’opera Don Giovanni se ne tiene lontano il più possibile, quindi, ai fini della storia, non possiamo annoverarla tra le sue conquiste. Anche Zerlina, come Donna Anna, rappresenta un enigma: di certo è attratta da Don Giovanni, accetta perfino di sposarlo, ma poi la tentata seduzione avviene dietro le quinte, e anche in questo caso lo spettatore è libero di interpretare la scena a suo piacimento. Si tratta tuttavia di questioni di lana caprina; il fatto che Donna Anna sia riuscita o no a difendersi, che cosa cambia nell’economia della narrazione? Come scrive Kierkegaard: “Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! (…) Quando Don Giovanni viene interpretato in musica, io sento in lui tutta l’infinità della passione, e nello stesso tempo la sua sconfinata potenza, alla quale nulla può resistere; sento il selvaggio ardore del desiderio, ma nello stesso tempo la sua assoluta invincibilità, contro la quale sarebbe vana ogni resistenza.” Qualcuno ha voluto mettere il personaggio di Don Giovanni in relazione con Giacomo Casanova, l’avventuriero veneziano divenuto celebre soprattutto per le sue doti da tombeur de femmes (grande amico, tra l’altro, dell’abate Da Ponte), o con un altro libertino (frutto, quest’ultimo, di fantasia), il visconte di Valmont protagonista de Les liaisons dangereuses di Choderlos de Laclos.

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Tuttavia non hanno nulla in comune: mentre Casanova e Valmont sono figli del loro secolo, e quindi ragionano, calcolano, scelgono, e pianificano, Don Giovanni è istinto allo stato puro. Casanova è raffinato, attento al temperamento della sua amante di turno, vanitoso e quindi desideroso di donare piacere non meno che di provarlo, affinché venga preferito a ogni altro uomo; Valmont è malvagio, seduce per punire, e più che alla quantità è interessato alla qualità delle sue vittime; Don Giovanni invece è una fiamma che travolge l’intero universo femminile. Basti pensare all’aria “Finch’han dal vino”, spesso denominata aria dello champagne per comprendere la sua forza primordiale, virile, diabolica; qui testo e musica si sposano in un connubio perfetto di passione ed erotismo:

Finch’han dal vino/ Calda la testa,/ Una gran festa/ Fa’ preparar./ Se trovi in piazza/ Qualche ragazza,/ Teco ancor quella/ Cerca menar./ Senza alcun ordine/ La danza sia:/ Chi’l minuetto,/ Chi la follia,/ Chi l’alemanna/ farai ballar./ Ed io frattanto,/ Dall’altro canto,/ Con questa e quella/ Vo’ amoreggiar./ Ah! la mia lista/ Doman mattina/ D’una decina/ Devi aumentar.

(DICHIARO DI NON POSSEDERE I DIRITTI PER QUESTO CONTENUTO)

Nel 1998 l’ex finanziere Orazio Bagnasco scrive un romanzo in cui personaggi reali (come Da Ponte e Casanova) si incontrano con Don Giovanni e altre figure dell’opera mozartiana. Uno dei temi principali è proprio la sfida che Don Giovanni lancia all’avventuriero veneziano, basata su chi riuscirà a conquistare per primo un determinato numero e tipo di donne. Il romanzo si intitola “Vetro”.

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Nonostante si sia detto e ripetuto che il personaggio di Don Giovanni, in Mozart, non ha nulla di settecentesco (nulla, quindi, di razionalistico, di illuminato, di ordinato), l’opera in realtà strizza l’occhio ai temi più scottanti dell’epoca, anche se in maniera nascosta. Scrive infatti Charles Rosen: “Anche la politica può entrare nella musica. Quando Don Giovanni saluta i suoi ospiti mascherati con la frase Viva la libertà, il contesto non implica specificamente una libertà politica (…) Ma (…) nel 1787, durante i fermenti che avevano seguito la Rivoluzione americana e preparavano quella francese, difficilmente un pubblico poteva mancare di cogliere un significato sovversivo in un passaggio che dal solo libretto poteva apparire assolutamente innocuo, particolarmente dopo avere udito le parole ‘Viva la libertà’ ripetute una dozzina di volte in fortissimo da tutti i solisti, accompagnati dalle fanfare dell’orchestra.” Scrive poi, più avanti: “La grande scena del ballo del primo atto, con le tre orchestre separate sulla scena e il complesso incroci dei ritmi di danza, non è soltanto un brano di virtuosismo compositivo. Ognuna delle tre classi sociali- il proletariato contadino, la borghesia e l’aristocrazia- ha la propria danza, e l’indipendenza assoluta di ciascun ritmo riflette la gerarchia sociale; e sono questo ordine e questa armonia che vengono distrutti quando Don Giovanni tenta di portare via Zerlina_ L’ambientazione politica del Don Giovanni assume poi maggiore peso a causa degli stretti rapporti che nel Settecento vi erano tra pensiero rivoluzionario ed erotismo (…) le connotazioni politiche della libertà sessuale erano ben vive al tempo della prima rappresentazione del Don Giovanni, e il pubblico non poteva sfuggirle: una parte dello scandalo e dell’attrazione che quest’opera ispirò per anni interi va probabilmente vista in questo contesto”.

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Don Giovanni dunque libidinoso, impavido, incurante delle regole, bugiardo, violento, e oltre a ciò anche rivoluzionario, eroico, tanto da sfidare la morte stessa; quando la statua del Commendatore gli chiede, gli ordina, quasi lo supplica di pentirsi, lui risponde con nobile disprezzo: A torto di viltate/ Tacciato mai sarò. Sa cosa lo aspetta, ma non intende servirsi di facili scappatoie per evitare il castigo; quale che sia il suo destino, lui è risoluto a seguirlo. No, no, ch’io non mi pento! è la sua risposta all’avvertimento del Commendatore che quella è la sua ultima possibilità di salvarsi. Lui affronta la morte come ha affrontato la vita: a viso aperto, senza mai tirarsi indietro, consegnandosi interamente alla dannazione come interamente si è consegnato al piacere. Non si può non provare ammirazione davanti al suo ardimento, e quando, dopo la sua morte, tornano sul palcoscenico tutti gli altri personaggi, soddisfatti di essere stati vendicati dal Cielo, allo spettatore rimane un senso di amarezza. Nel descrivere la morte di Mozart, il biografo Claudio Casini la paragona a quella del suo Don Giovanni, e a mio parere usa una similitudine geniale: “Quando fu morto, al termine di una terribile agonia, accadde come nel suo Don Giovanni: dopo la scomparsa del protagonista restano in scena personaggi opachi, sbigottiti dall’aver assistito a un’esistenza turbinosa, finita in maniera conturbante e piena di misteri”. Chapeau, signor Casini! _ Qui di seguito citerò alcuni tra gli innumerevoli saggi dedicati al capolavoro mozartiano.

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Ora, naturalmente, qualche edizione in DVD dell’opera mozartiana

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Per chi invece, come Kierkegaard, è convinto che il Don Giovanni non vada visto, ma ascoltato, ecco alcune edizioni in formato CD:

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Verrebbe da pensare che, raggiunte grazie a Mozart le vette del sublime, Don Giovanni abbia concluso in gloria la sua esistenza artistica, e a che nessuno possa venir l’idea di scrivere o comporre nuove opere che lo vedano protagonista, per dover poi subire l’umiliazione dell’inevitabile confronto con l’eroe mozartiano. Eppure le cose vanno diversamente, Don Giovanni continua ad affascinare e a ispirare artisti di ogni tipo. Tra il 1818 e il 1824, Lord Byron lavora al poema Don Juan; l’opera rimane però incompleta a causa della morte dell’autore. La trama si distacca da quelle che abbiamo analizzato finora: qui Don Giovanni è un adolescente, affascinante ma ingenuo, che tra schiavi, pirati, sultani e odalische, vive una vita avventurosa, ricca di erotismo, attraverso l’intera Europa, dalla Spagna alla Turchia, alla Russia e all’Inghilterra. Al di là del nome e dell’intensa attività sessuale, questo personaggio ha poco in comune con i suoi omonimi predecessori, ciononostante rimane un’opera poetica di ampio respiro che ha i suoi estimatori.

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Anche lo scrittore, poeta e drammaturgo russo Aleksandr Sergeevich Puškin scrive un microdramma ispirato a Don Giovanni, dal titolo Il convitato di pietra, la cui sostanziale differenza con la trama classica è che il Commendatore non è più il padre ma il marito di Donna Anna, ma il finale non cambia.

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Byron e Puškin non sono comunque i soli a cimentarsi nell’ardua impresa di dare nuova vita a un personaggio che già è stato consegnato all’immortalità. L’Ottocento conta numerosi artisti che ne seguirono l’esempio. Ne citerò solo alcuni:

_ E. T. A. Hoffmann: Racconti fantastici, 1814 https://amzn.to/3wuNkdh

_ Honoré de Balzac: L’elisir di lunga vita, 1830 https://amzn.to/48lrNkv

_ Prosper Mérimée: Le anime del Purgatorio, 1834 https://amzn.to/4bIc1mF

_ José Zorrilla: Don Giovanni Tenorio, 1844 https://amzn.to/4bJdLfo

_ J. A. Barbey d’Aurevilly: Le diaboliche, 1874 https://amzn.to/48gsUCh

_ Remy de Gourmont: Storie magiche, 1894 https://amzn.to/49G1zdA

Per quanto riguarda il Novecento, degno di nota è L’ultima notte di Don Giovanni di Edmond Rostand: qui, in una Venezia che funge da “viale del tramonto”, un disilluso Don Giovanni prende coscienza del proprio fallimento quando una specie di demone gli fa apparire di fronte tutte le donne da lui sedotte, che gli rivelano di non averlo mai amato. E come se l’umiliazione non fosse già un castigo sufficiente, Don Giovanni viene infine trasformato in un burattino, una caricatura di se stesso, costretto a recitare in eterno il suo fasullo ruolo di tombeur de femmes. In quest’opera teatrale viene operata una lettura psicanalitica del mito di Don Giovanni; in fin dei conti siamo nel 1922, e il saggio Al di là del principio del piacere è stato dato alle stampe appena due anni prima.

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Da segnalare anche Don Giovanni ritorna dalla guerra dello scrittore e drammaturgo austriaco Ö. von Horvàth, del 1936, e Don Giovanni o l’amore per la geometria dello svizzero Max Frisch, 1953, in cui Don Giovanni è costretto ad accettare di essere sempre stato sedotto quando invece credeva di sedurre.

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Nel nuovo millennio, infine, Don Giovanni ottiene una sorta di riabilitazione grazie al portoghese José Saramago e al suo Don Giovanni, o il dissoluto assolto, scritto nel 2005 e trasposto in musica qualche anno più tardi dal compositore Azio Corghi. Non ci sono più le fiamme dell’inferno ad attendere il protagonista, che in questa versione è perseguitato non dal Commendatore (esponente di un ipocrita moralismo ormai antiquato) ma da due “non tanto innocenti” Donna Anna e Donna Elvira; la statua non ha alcuna funzione, e Don Ottavio è rappresentato in tutta la sua sciapa vigliaccheria. Don Giovanni, che, al contrario, è un eroe (“Don Giovanni sa che mentirebbe contro se stesso se si pentisse, e che nessun pentimento può cancellare le mancanze commesse”, dice Saramago durante un’intervista concessa a Leonetta Bentivoglio, nella rubrica Cultura di ‘Repubblica’, 2 aprile 2005), viene salvato inaspettatamente da Zerlina. E riguardo l’opera di Mozart- Da Ponte asserisce: “Metto il Don Giovanni di Mozart al di sopra di qualsiasi altra opera di qualsiasi altro autore o epoca. Se c’è un’opera al mondo capace di mettermi in ginocchio, vinto, sottomesso, è proprio questa. Gli otto minuti che trascorrono fra l’entrata della statua del Commendatore e la caduta di Don Giovanni all’inferno appartengono ai domini del sublime”. 

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Saggi critici sul personaggio di Don Giovanni:

_ P. Brunel: Dictionnaire de Don Juan https://amzn.to/3OP1dcV

_ U. Curi: Filosofia del Don Giovanni https://amzn.to/49Eu9ft

_ G. Macchia: Vita, avventure e morte di Don Giovanni https://amzn.to/48oepMK

_ R. Raffaelli: Variazioni sul Don Giovanni https://amzn.to/49ihTBK

_ J. Rousset: Il mito di Don Giovanni https://amzn.to/3OP239z

Nemmeno i compositori si lasciano scoraggiare dal successo del Don Giovanni di Mozart, e tanta altra musica viene scritta nei secoli successivi, ispirata al seduttore di Siviglia. Nel 1832, il catanese Giovanni Pacini compone la farsa musicale Il convitato di pietra su libretto di Gaetano Barbieri. La trama è quella tradizionale, con qualche personaggio eliminato o ridotto di spessore, e l’organico strumentale è quello di un’orchestra da camera. Ne è disponibile una versione DVD.

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Anche l’ungherese Franz Liszt si cimenta nell’impresa, e nel 1841 compone Réminescences de Don Juan, una fantasia per pianoforte su temi dal Don Giovanni di Mozart: dell’opera di Liszt, il collega F. Busoni dice che contiene “un significato quasi simbolico come il punto più alto del pianismo”. Nel 1877, il compositore ungherese ne scrive una nuova versione per due pianoforti.

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Nel 1888 è la volta del tedesco Richard Strauss, che compone un poema sinfonico ispirato a Don Juan Ende del poeta Nikolaus Lenau, ennesima variazione sul tema che vede, questa volta, il protagonista impegnato nella ricerca della sua donna ideale, e infine suicida per la sua impossibilità di trovarla. L’opera riscuote un grande successo.

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E per quanto riguarda il cinema? Possibile che la settima arte rimanga estranea alla celebrazione di un personaggio così leggendario? Naturalmente no. Nel 1948 esce Le avventure di Don Giovanni, con Errol Flynn nella parte dell’eroe ( https://amzn.to/49iOdnL ); nel 1960 è Ingmar Bergman a riportare sulla Terra (in tutti i sensi) il diabolico seduttore col film L’occhio del diavolo ( https://amzn.to/49EDWCf ); dieci anni più tardi tocca a Carmelo Bene che, nel 1970, traspone sul grande schermo il Don Giovanni di J. A. Barbey d’Aurevilly ( https://amzn.to/3wn2PEc ); infine, nel 2009, Carlos Saura gira una pellicola incentrata sulla figura di Lorenzo Da Ponte e sulla sua vita da libertino, intitolata Io, Don Giovanni ( https://amzn.to/49lxfVS ).

Cosa rimane da dire? Beh, in realtà si potrebbe continuare all’infinito. Io, da grande estimatrice di Mozart, e innamorata del suo Don Giovanni, voglio concludere questo articolo con le parole che Kierkegaard dedica a quel grande capolavoro, e che potrebbero benissimo essere le mie:

“Don Giovanni non va visto, ma ascoltato! Perciò non voglio descriverlo ma limitarmi a dire: ascoltate Don Giovanni! E se ascoltandolo non siete capaci di farvi un’idea di lui, non potrete farvela mai. Ascoltate come la musica racconta la sua vita: come il lampo dall’oscura nube temporalesca, così egli guizza dalla profonda serietà della vita, più veloce del lampo, più incostante di questo, eppure ugualmente sicuro di sé; ascoltate come egli si precipita nella prodiga ricchezza della vita, come egli lotta contro le sue solide dighe; ascoltate le leggere ed aeree melodie del violino, il festoso sorriso della gioia, il giubilo del piacere, i beati tripudi del godimento; ascoltate la sua fuga selvaggia, egli corre oltre se stesso, sempre più veloce, sempre più selvaggio; ascoltate la sfrenata concupiscenza della passione, il sussurrare dell’amore, il mormorio della tentazione, il vortice della seduzione; ascoltate il silenzio dell’attimo – ascoltate, ascoltate; ascoltate il Don Giovanni di Mozart!”

Quando la luna si guarda allo specchio

Che cosa vede la luna di sé quando si riflette in uno specchio d’acqua? Vede il suo lato luminoso, quello che possiamo ammirare anche noi creature terrene. Inevitabilmente, però, vede anche che, nell’arco di un mese, sulla sua faccia cala progressivamente un’ombra, fino a farla scomparire, che poi si ritira, sempre gradualmente, per restituirle infine intero il suo argenteo chiarore. E’ la consapevolezza della natura transitoria dell’oscurità a tenerla agganciata al cielo, la certezza che prima o poi tornerà la luce a renderla un tranquillo e placido faro, immutabile attraverso i millenni. Ma come scriveva Richard Bach, “Guardandosi allo specchio una cosa è certa: ciò che vediamo non è ciò che siamo”; innanzitutto, l’immagine che lo specchio ci restituisce inverte la destra con la sinistra, ma soprattutto non esiste oggetto o essere vivente capace di vedersi nello stesso momento riflesso nella sua interezza. Così la luna vede sempre lo stesso lato di sé, nessuna superficie cattura mai la sua faccia nascosta; e ciò che è nascosto ci fa paura, proprio perché non conosciamo il suo aspetto. A volte ignoriamo addirittura la sua presenza. La faccia nascosta della luna è l’ombra che ci portiamo dentro fin dalla nascita, è il grumo di tenebre che affiora nei sogni e di cui non riusciamo a conservare il ricordo, se non sotto forma di strano malessere, è la nostra parte di eredità lasciataci come una maledizione dai più profondi terrori covati dall’inconscio collettivo. Può darsi che qualche volta perfino la luna, nell’osservare le sue fasi di luce e di oscurità, percepisca confusamente l’esistenza di un’ombra assai più enorme, e presa dal panico impazzisca e ci faccia impazzire (“(…) lunatic indica lo stato di una persona che per effetto della luna perde temporaneamente il senno. Nell’Inghilterra del XIX secolo, quando le persone riconosciute come lunatic commettevano dei crimini, ottenevano una riduzione della pena. Perché, più che alla responsabilità individuale, il crimine veniva imputato alla confusione indotta dalla luce della luna” da 1Q84 di Murakami Haruki_ https://amzn.to/49rTid7 )

Quando ho scritto i racconti che compongono “La luna allo specchio”, mi sono ispirata a strani sogni notturni che in passato mi avevano turbata a un punto tale che, appena sveglia, avevo avvertito il bisogno di metterli nero su bianco, così, confusamente, febbrilmente, prima che la coscienza si destasse del tutto. Era come se fossi stata attraversata da lampi di antiche verità che dovevo portare alla luce. Ancora adesso, a distanza di anni, non so quanto quei sogni dicessero di me e quanto invece di qualcosa di ben più profondo e universale. I racconti che ne ho tratto sono tra gli scritti che più sento miei, e che allo stesso tempo ritengo i più capaci di comunicare con l’inconscio di chi li legge, chiunque essi siano. Sono convinta che la luna, mentre facevo quei sogni, stesse cercando uno specchio che le mostrasse la sua faccia nascosta che la chiamava, e che nei miei occhi chiusi sia riuscita a intravvedere almeno qualche piccolo frammento del suo immenso mistero.

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I racconti sono otto, otto esperienze visionarie al limite del sovrannaturale. Attraverso i secoli, dalle oscurità del Medioevo agli allucinanti neon di un futuro distopico, l’uomo e la donna seguono ognuno il proprio percorso per ritrovarsi, faccia a faccia, al centro di quell’irrisolto labirinto che è l’inconscio; qui le loro paure si scontrano, producendo effetti devastanti, a prova che nessuna civiltà, nemmeno la più avanzata, può ridurre al silenzio la voce dei terrori più ancestrali.

_ “Lo sposo sinistro”

Darja, Dimitra, Dalibor: due cugine e il fidanzato di una di loro (quale?). Le identità si confondono e si fondono nell’attesa del matrimonio, in questo incubo della Russia zarista di fine Ottocento, dove la luna non cala né cresce, mantenendo la forma di una falce pronta ad abbattersi sul colpevole. Ma chi è il colpevole, e qual è la colpa? Dalibor, il bellissimo sposo dai lunghi capelli neri, esiste davvero? Tra rituali femminili e infausti presagi, bisogna solo aspettare che passi la Quaresima, e solo allora si potrà scoprire la vera natura dell’uomo che, tutte le notti, spia i sogni altrui dall’alto dei tetti.

_ “Il corridoio”

Percorrendo uno strano corridoio, una donna-bambina vorrebbe varcare la soglia della conoscenza, ma non essendo ancora pronta è costretta a intraprendere un cammino in senso inverso, in cui sperimenta tutte le fasi più umilianti dell’esistenza umana, fino al delitto; il perdono le insegnerà a unirsi al suo doppio maschile, e solo al suo fianco potrà ritentare il viaggio nella sua direzione naturale.

_ “Fiaba crudele”

Una fanciulla crea un universo tutto suo, in cui si sente al sicuro e non conosce solitudine, paura o tristezza; numerose creature partorite dal suo cervello popolano questo mondo, e rendono la sua infanzia gioiosa e senza fine. Quando l’amore si affaccia sulla soglia del suo angolo di sogno la sua felicità giunge al culmine, e a quel punto gli adulti ritengono che non sia né giusto né naturale lasciare che la fanciulla goda di quell’eterna giovinezza e di quella gioia senza conoscere la vita vera. Le conseguenze saranno devastanti sia per la sua mente che per il suo corpo.

_ “La notte dei gatti”

Nel 1558, a Norimberga, un alienato mentale prigioniero di una casa di reclusione, scrive sui muri della sua cella la delirante storia della sua vita, usando il proprio sangue al posto dell’inchiostro. La vicenda è suddivisa in ventidue parti, a cui corrispondono le ventidue figure degli Arcani Maggiori: colui che scrive (il Matto) chiede a un compagno di sventura dotato d’incredibile astuzia e di sapienza (il Bagatto) di aiutarlo a distruggere l’edificio, convinto che solo in questo modo potrà liberarsi del mostro che sente crescere dentro di sé per effetto del suo passato incontro con una strega (la Papessa) e con altri personaggi. Curiosamente, la sola parete a sopravvivere sarà quella che porta addosso l’intera storia scritta col sangue.

“Il primo argento”

Inghilterra, inizio Ottocento. Un pomeriggio la giovane signorina Hamilton assiste a un prodigioso concerto dei Silver, due musicisti che, benché gemelli, sono diversissimi tra loro sia per aspetto che per temperamento; l’uno è attraente e cortese quanto l’altro è mostruoso e scontroso. In società si comincia a chiacchierare di tradimenti e maledizioni, ma Judith Hamilton non presta ascolto a queste voci. Fino a quando, dagli abissi della sua memoria, risale un ricordo che, a causa del suo orrore, era stato rimosso. La ragazza si chiede allora se credere ai presagi o se sfidare il destino.

_ “Il terzo film”

Colpevole di aver usato violenza a un’attrice, un giovane viene rinchiuso in una sorta di sala cinematografica a forma di cubo, sulle cui pareti vengono proiettati i suoi pensieri più angosciosi; non può trovare sollievo nemmeno nel sonno, perché allora è perseguitato da incubi insopportabili. A poco a poco la sua ragione comincia a vacillare.

_ “Sanguina Giove”

In una città dove un misterioso morbo sta decimando il bestiame, un gruppo di clerici vagantes arriva per festeggiare il Carnevale; tra loro c’è anche il giovane e gaudente Hysalf. La città è comandata da un personaggio di nome Ivan Divina, che è metà uomo e metà donna, e che ha fatto erigere una prigione (denominata Mesata perché la reclusione dura un mese) per le donne che sono prostitute, o lesbiche, o faiseuses d’anges. Quando cominciano a morire anche esseri umani a causa dello strano morbo, Ivan Divina comunica a Hysalf (che avverte uno strano legame con la Mesata) che solo lui può fermare il contagio e salvare la città. Le sue parole fanno comprendere al giovane studente quali sono le sue origini, e qual è il suo destino.

_ “Buonanotte, Mab”

Un essere femminile di non ben precisata natura, è condannata a non poter conoscere la quiete della morte, e giace in un limbo tra la vita e la non-vita, tormentata dai ricordi di una felicità passata e ormai lontana, e dallo scherno di creature crudeli che deridono la sua immobilità. Una porta sempre aperta, da cui entra una continua luminosità, le impedisce il riposo, e le uniche persone che comunicano con lei sono una bambina bionda desiderosa di decapitarla, e il re degli elfi, che ogni notte la saluta con un bacio.

Sta tornando Helena Markos

Il conto alla rovescia è cominciato: fra otto giorni, più precisamente dal 12 febbraio 2024, il film-capolavoro “Suspiria” di Dario Argento tornerà in versione restaurata in più di cento sale cinematografiche italiane. Era il 1977 quando questa pellicola sconvolse ed entusiasmò i fans del nostro Re del Brivido, che per la prima volta si cimentava con il genere horror; fino a quel momento aveva girato la pregevole trilogia degli animali (“L’uccello dalle piume di cristallo”, nel 1970, “Il gatto a nove code” e “Quattro mosche di velluto grigio” nel 1971), ascrivibile al genere giallo/thriller, e l’insuperato “Profondo rosso” del 1975, dove si mescolavano in una perfetta operazione alchemica toni da commedia ed elementi decisamente disturbanti, che quasi preannunciavano il capolavoro successivo. E il capolavoro successivo fu proprio “Suspiria”; fino a quel momento nessun regista aveva portato sullo schermo in maniera così terrificante e tangibile la figura della “strega”, e furono molti gli spettatori che ne rimasero letteralmente scioccati. L’uso magistrale dei colori accesi, quasi da cartone animato, la colonna sonora che dà i brividi fin dalla prima nota, con quelle sonorità sinistre da carillon, scandite da un ossessivo bouzouki a cui si sovrappone l’incomprensibile delirio del compositore Claudio Simonetti, e la trama, simile a una fiaba dell’orrore dove le streghe sono tanto più pericolose in quanto camuffate da eleganti e premurose signore di mezza età… Insomma, è difficile non aver mai sentito parlare di quest’autentica opera d’arte (la cui qualità purtroppo Argento non riuscì più a eguagliare), e a chi non l’ha mai visto consiglio di cuore di approfittare dell’evento promosso da Videa e da Cat People. Qui sotto comunque metterò il link del film (per chi non avrà la possibilità di vederlo al cinema) e anche di qualche gadget legato al film stesso che, all’avvicinarsi di San Valentino, potrebbe essere un regalo perfetto per chi ha un/una partner con la passione per l’horror d’autore.

E ora qualche maglietta ispirata al film…

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Buon divertimento!

Vittime tra le righe di un pentagramma

Ci sono canzoni che non invecchiano mai, melodie e testi che trascendono l’epoca in cui furono scritti; decennio dopo decennio, vengono riproposte dalle radio alle nuove generazioni, e in chi le ascolta evocano le stesse universali emozioni che scatenarono ai tempi della loro uscita. Viceversa, ci sono canzoni talmente figlie del periodo della loro creazione, inni generazionali, che a distanza di anni non riescono più a comunicare il loro messaggio originario se non a coloro che le vissero personalmente; non è la loro alta/bassa qualità a farle sbiadire, ma le mode che sono cambiate, le tematiche non più attuali, o una debolezza di base che non riesce a tenere il passo col tempo. In questo articolo, però, voglio parlare di quella che può essere definita una terza categoria, che è una sorta di sintesi delle prime due di cui ho parlato: si tratta di canzoni, a volte capolavori, che magari hanno attraversato gli anni senza perdere nulla della loro bellezza, ma che non riusciamo più ad ascoltare con animo leggero come invece facevano i nostri genitori, perché è la nostra sensibilità che è diversa. Probabilmente, se composte al giorno d’oggi, diventerebbero oggetto di dibattiti, di scontri, e provocherebbero una serie di reazioni violente, dall’indignazione all’ostracismo. Sono state scritte decenni fa, ma ci toccano così nel profondo perché, a dispetto del tempo trascorso, sono più attuali che mai: sto parlando delle canzoni che trattano il tema del femminicidio.

Naturalmente è difficile passare in rassegna tutte le canzoni che affrontano questa tematica; sono molte, più di quante sarebbe lecito immaginarsi. Per questo motivo, ne analizzerò tre, di diversa provenienza: “Delilah”, hit del 1968 portata al successo dal gallese Tom Jones, “Lella”, di Edoardo De Angelis e Stelio Gicca Palla, che nel 1971, cantata da Lando Fiorini, vinse il Cantagiro, e “Figlio della luna”, del 1989, del gruppo musicale spagnolo Mecano. Molto diverse tra loro per stile e atmosfera, narrano ciascuna la storia di una donna uccisa per gelosia o per l’incapacità del partner di accettare la fine della loro relazione.

_ “Delilah”_ Celeberrimo pezzo che ispirò numerose cover (ma con testi completamente diversi), “Delilah” fu scritta e composta da Barry Mason e Les Reed. La melodia è orecchiabile e accattivante (anche se richiede un’ampia estensione vocale e ardui virtuosismi al cantante), e può essere ascritta al genere della power ballad, un tipo di canzone caratterizzata da sonorità suggestive e da testi romantici o malinconici; il ritmo di flamenco aggiunge al tutto una musicalità da hit. Qui di seguito riporterò le parole dell’originale e una mia traduzione:

I saw the light on the night that I passed by her window
I saw the flickering shadows of love on her blind
She was my woman
As she deceived me, I watched and went out of my mind

My, my, my, Delilah
Why, why, why, Delilah
I could see, that girl was no good for me
But I was lost like a slave that no man could free

At break of day when that man drove away, I was waiting
I crossed the street to her house and she opened the door
She stood there laughing
I felt the knife in my hand and she laughed no more

My, my, my, Delilah
Why, why, why, Delilah
So before they come to break down the door
Forgive me Delilah, I just couldn’t take anymore

She stood there laughing
I felt the knife in my hand and she laughed no more

My, my, my, Delilah
Why, why, why, Delilah

So before they come to break down the door
Forgive me, Delilah, I just couldn’t take anymore
Forgive me, Delilah, I just couldn’t take anymore

TRADUZIONE

“La notte in cui passai davanti alla sua finestra vidi la luce / E le tremolanti ombre dell’amore sulla sua tenda / Lei era la mia donna / Mentre mi ingannava io guardai e persi la testa

Mia, mia mia Delilah / Perché, perché, perché, Delilah? / Potevo vederlo, quella ragazza mi faceva del male / Ma io ero perduto come uno schiavo che nessuno poteva liberare

All’alba, quando quell’uomo se ne andò con la sua macchina, io stavo in attesa / Attraversai la strada fino a casa sua e lei aprì la porta / Se ne stava là e rideva / Io sentii il coltello nella mia mano e lei non rise più

Mia, mia, mia Delilah / Perché, perché, perché, Delilah? / Così, prima che vengano a sfondare la porta / Perdonami, Delilah, non avrei potuto sopportare oltre

Se ne stava là e rideva / Io sentii il coltello nella mia mano e lei non rise più

Mia, mia, mia Delilah / Perché, perché, perché, Delilah? / Così, prima che vengano a sfondare la porta / Perdonami, Delilah, non avrei potuto sopportare oltre”                              

In questo preciso momento storico che stiamo vivendo, è innegabile che un testo del genere farebbe storcere il naso anche ai più cinici. Non si tratta tanto dell’imperante e castrante political correctness, che forse sta facendo più danni del previsto, quanto invece del sempre crescente numero di femminicidi che si registra non solo in Italia ma in tutto il mondo. Se pensiamo agli ultimi vent’anni, ci accorgeremo di quante cose siano cambiate nel nostro modo di rapportarci agli altri, di comunicare, di percepire la realtà che ci circonda. Una grande quantità di comportamenti che un tempo apparivano innocui sono ora visti con occhio diverso; vecchie usanze o anche semplici modi di dire hanno cominciato a mostrare la corda. E’ nata una nuova sensibilità, prestiamo sempre maggior attenzione alle parole, ma contemporaneamente la società sembra regredire, perché il cambiamento fa paura. Senza tirare in ballo i vari movimenti di stampo femminista, possiamo dire che le donne hanno meritatamente conquistato traguardi importanti, uno dei quali (che dovrebbe essere naturale e scontato ma che evidentemente per molti non lo è) è la liberazione dal predominio maschile; parlavo prima dei cambiamenti che fanno paura: ecco, questa liberazione terrorizza molti uomini, poiché la vedono come una minaccia alla loro virilità e al “ruolo” che si sono auto-assegnati. Rileggiamo il testo di Delilah; forse nel 1968 era considerata una frase romantica, ma oggi non possiamo tollerare che qualcuno dica: “Era la MIA donna”. Ogni persona appartiene solo a se stessa. Questa malsana idea dell’amore come possesso, così mortificante e offensiva, purtroppo è ancora profondamente radicata nella mentalità maschile, e così si verifica un drammatico sfasamento tra quello che è il progresso in atto delle nuove sensibilità e quelle che sono le paure ataviche che per secoli hanno regolato i rapporti tra i sessi. Chissà se sentendo “Delilah” qualcuno, nel 1968, ha pensato con un brivido a cosa può portare una gelosia morbosa, o se la vicenda narrata è stata, per gli ascoltatori, niente più di una storia di normale routine? Comunque sia andata allora, nel nuovo millennio questa celebre canzone è tornata agli onori della cronaca proprio per il suo contenuto violento, non più accettabile. Antefatto: nel 1999 Tom Jones (che, ricordiamolo, è gallese) la cantò prima di una storica partita di rugby tra il Galles e l’Inghilterra, che si concluse con la vittoria dei primi; questo fece sì che “Delilah” diventasse l’inno ufficiale della squadra di rugby del Galles, e lo rimase per anni, più precisamente fino al 2014. In quell’anno, infatti, Dafydd Iwan, che era allora presidente del Plaid Cymru (partito del centro-sinistra gallese), chiese che i tifosi della squadra smettessero di cantare quello che era ormai il loro inno perché in qualche modo banalizzava la violenza sulle donne; quello che desiderava, in realtà, non era vietare la canzone per motivi politici, ma invitare la gente a riflettere sulla vicenda narrata nel testo. “Quello che spero”, disse a The Guardian (la traduzione è mia) “è che la prossima volta che canterete a squarciagola questa orecchiabile canzone, riserverete un pensiero per la povera donna che ‘non ride più’, ed eviterete di provare empatia per il povero stronzo che l’ha uccisa solo perché ‘non avrebbe potuto sopportare oltre'” Nove anni più tardi (nel febbraio del 2023) finalmente la canzone usata dai tifosi come inno fu ufficialmente bandita dalla Welsh Rugby Union. La melodia di “Delilah” rimane ancora, e rimarrà sempre, bellissima e struggente, e le interpretazioni di Tom Jones delle autentiche prove di bravura, ma il testo è stato infine messo in discussione. I tempi, fortunatamente, sono cambiati.

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_ “Lella”_ “Lella” è una cosiddetta ballata folk dalle modalità armoniche ispirate a “Saigon Bride” di Joan Baez, composta dal duo Edoardo & Stelio in dialetto romanesco, che conferisce un’atmosfera di miseria e di squallore alla già squallida tematica trattata. Una relazione clandestina tra una donna sposata e un “borgataro”, di cui lei è ormai stanca, e di cui lui invece non tollera la fine. E se in “Delilah” abbiamo l’assassino che, dopo aver compiuto il delitto, versa lacrime di coccodrillo e chiede perdono alla sua vittima, qui abbiamo un colpevole che, a distanza d’anni, non è pentito e non prova alcun rimorso. Qui sotto il testo:

Te la ricordi Lella quella ricca
La moje de Proietti er cravattaro
Quello che cia’ er negozio su ar Tritone
Te la ricordi, te l’ho fatta vede
Quattr’anni fa e nun volevi crede
Che insieme a lei ce stavo proprio io
Te la ricordi poi ch’era sparita
E che la gente e che la polizia
S’era creduta ch’era annata via
Co’ uno co’ più sordi der marito

E te lo vojo di’ che so’ stato io
E so’ quattr’anni che me tengo ‘sto segreto
E te lo vojo di’, ma nun lo fa sape’
Nun lo di’ a nessuno, tiettelo pe’ te

Je piaceva anna’ ar mare quann’è inverno
Fa’ l’amore cor freddo che faceva
Però le carze nun se le tojeva
A la fiumara ‘ndo ce sta er baretto
Tra le reti e le barche abbandonate
Cor cielo grigio a facce su da tetto
Na matina ch’era l’urtimo dell’anno
Me dice co’ la faccia indifferente
“Me so stufata nun ne famo gnente”
E tireme su la lampo der vestito

E te lo vojo di’ che so’ stato io
E so’ quattr’anni che me tengo ‘sto segreto
E te lo vojo di’, ma nun lo fa sape’
Nun lo di’ a nessuno, tiettelo pe’ te

Tu nun ce crederai, nun ciò più visto
L’ho presa ar collo e nun me so’ fermato
Che quann’è annata a tera senza fiato
Ner cielo da ‘no squarcio er sole è uscito
E io la sotterravo co’ ‘ste mano
Attento a nun sporcamme sur vestito
Me ne so’ annato senza guarda’ ‘ndietro
Nun ciò rimorsi e mo’ ce torno pure
Ma nun ce penso a chi ce sta la’ sotto
Io ce ritorno solo a guarda’ er mare

E te lo vojo di’ che so’ stato io
E so’ quattr’anni che me tengo ‘sto segreto
E te lo vojo di’, ma nun lo fa sape’
Nun lo di’ a nessuno, tiettelo pe’ te

Tiettelo pe’ te

Una vicenda sordida, senza poesia, dove si parla di soldi, ambientata in un ambiente grigio e freddo (il mare d’inverno), amplessi consumati in fretta, così, furtivamente; non c’è comunicazione tra i due amanti, solo questo sesso clandestino che finisce per annoiare la donna. Lui è un uomo comune, senza immaginazione, un uomo elementare, istintivo, quasi “primitivo”, che di fronte alla decisione della donna di troncare la loro relazione reagisce d’impulso (ma sta attento a non sporcarsi il vestito, perché potrebbe essere una prova contro di lui, gesto dettato dall’astuzia basilare dell’uomo di strada). E se è impossibile parlare d’amore, è parimenti impossibile parlare di “amore malato, morboso, tossico”; di amore, sano o meno, non c’è la minima traccia. Altrimenti come spiegarsi quest’assenza di rimorsi, questa indifferenza con cui l’omicida torna nel luogo dove ha sepolto la sua vittima? E’ strano, ma sono tanti gli artisti che vollero cantare questa canzone; le due interpretazioni più celebri sono forse quelle di Lando Fiorini e del gruppo Schola Cantorum, ma “Lella” entrò nel repertorio anche dei Vianella, di Antonello Venditti, e addirittura di Paola Turci. Nel 2021, poi, una piccola rivoluzione: a quella che era, nonostante la tematica, una canzone amatissima (non però dalle femministe), il cantautore noto con lo pseudonimo di Er Piotta aggiunse un finale “catartico”. Dopo la frase Io ce ritorno solo a guardà er mare, l’artista romano inserì la seguente strofa:

Sotto questa pioggia inverno che me porta indietro
Sopra ‘sto tereno mollo sabbia gonfia de veleno
Scrivo un ultimo epitaffio in cielo come arcobaleno
Pensavo che era amore, ma non era vero
Cinquant’anni fa ero un pischello e mo so’ vecchio e stanco (e te lo vojo di’)
Dio, se m’ascorti, aprime che sargo
Te pago il conto, manname all’inferno (e te lo vojo di’)
Brucerò nel fuoco eterno, ma senza un rimpianto (senza un rimpianto)

Anche questo è un segno di come la sensibilità sia cambiata; peccato però che Lella non possa tornare in vita, il suo corpo rimarrà per sempre sepolto in quella spiaggia, e alla fine anche lei scomparirà nell’oblìo.

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_ “Hijo de la luna”/”Figlio della luna”_ Era il 1989 quando il trio musicale Mecano raggiunse la celebrità nel nostro paese con la versione italiana della loro hit spagnola “Hijo de la luna” (pubblicata, questa, nel 1986, e tradotta nella nostra lingua da Marco Luberti). Composta da José Marìa Cano, incontrò immediatamente il favore del pubblico grazie a tre fattori: la potenza del testo, le sonorità sognanti e quasi “fantasy”, e il fascino della vocalist Anna Torroja. Il gruppo, in quell’anno, fu ospite di numerose trasmissioni televisive, dove presentò il pezzo, e in estate lo portò in gara al Festivalbar; a dispetto della mancata vittoria, si può dire comunque che “Figlio della luna” fu la canzone dell’anno, e ancora adesso conta fior di estimatori che ne apprezzano l’originalità e l’atmosfera da fiaba (per adulti). Di seguito il testo dell’originale, scritto da José Marìa Cano, e sotto la versione italiana di Marco Luberti.

Tonto el que no entienda
Cuenta una leyenda
Que una hembra gitana
Conjuró a la luna hasta el amanecer

Llorando pedía
Al llegar el día
Desposar un calé

“Tendrás a tu hombre, piel morena”
Desde el cielo habló la luna llena
Pero, a cambio, quiero el hijo primero
Que le engendres a él

Que quien su hijo inmola
Para no estar sola
Poco le iba a querer

Luna, quieres ser madre
Y no encuentras querer que te haga mujer
Dime, luna de plata
¿Qué pretendes hacer?
¿Con un niño de piel?
Ah, ah-ah-ah; ah, ah-ah-ah

Hijo de la luna

De padre canela, nació un niño
Blanco como el lomo de un armiño
Con los ojos grises, en vez de aceituna
Niño albino de luna

Maldita su estampa
Este hijo es de un payo
Y yo no me lo callo

Luna, quieres ser madre
Y no encuentras querer que te haga mujer
Dime, luna de plata
¿Qué pretendes hacer?
¿Con un niño de piel?
Ah, ah-ah-ah; ah, ah-ah-ah
Hijo de la luna

Gitano al creerse deshonrado
Se fue a su mujer, cuchillo en mano
¿De quién es el hijo? Me has engaña’o fijo
Y, de muerte, la hirió

Luego se hizo al monte
Con el niño en brazos
Y allí le abandonó

Luna, quieres ser madre
Y no encuentras querer que te haga mujer
Dime, luna de plata
¿Qué pretendes hacer?
¿Con un niño de piel?
Ah, ah-ah-ah; ah, ah-ah-ah

Hijo de la luna

Y las noches que haya luna llena
Será porque el niño esté de buenas
Y, si el niño llora, menguará la luna
Para hacerle una cuna
Y, si el niño llora, menguará la luna
Para hacerle una cuna

VERSIONE ITALIANA

Per chi non fraintenda
Narra la leggenda
Di quella gitana
Che pregò la luna
Bianca ed alta nel ciel
Mentre sorrideva
Lei la supplicava
Fa che torni da me

Tu riavrai quell’uomo
Pelle scura
Con il suo perdono
Donna impura
Però in cambio voglio
Che il tuo primo figlio
Venga a stare con me
Chi suo figlio immola
Per non stare sola
Non è degna di un re

Luna, adesso sei madre
Ma chi fece di te
Una donna non c’è
Dimmi, luna d’argento
Come lo cullerai
Se le braccia non hai
Figlio della luna

Nacque a primavera
Un bambino
Da quel padre scuro
Come il fumo
Con la pelle chiara
Gli occhi di laguna
Come un figlio di luna
Questo è un tradimento
Lui non è mio figlio
Ed io no, non lo voglio

Luna, adesso sei madre
Ma chi fece di te
Una donna non c’è
Dimmi, luna d’argento
Come lo cullerai
Se le braccia non hai
Figlio della luna

II gitano folle
Di dolore
Colto proprio al centro
Nell’onore
L’afferrò gridando
La baciò piangendo
Poi la lama affondò
Corse sopra al monte
Col bambino in braccio
E lì l’abbandonò

Luna, adesso sei madre
Ma chi fece di te
Una donna non c’è
Dimmi, luna d’argento
Come lo cullerai
Se le braccia non hai
Figlio della luna

Se la luna piena
Poi diviene
È perché il bambino
Dorme bene
Ma se sta piangendo
Lei se lo trastulla
Cala e poi si fa culla
Ma se sta piangendo
Lei se lo trastulla
Cala e poi si fa culla

Sebbene questa bellissima canzone sia entrata a far parte della storia del pop strumentale e sia conosciuta in tutto il mondo (è stata tradotta anche in inglese, in francese, in olandese, addirittura in finlandese), nessuno sembra mai essersi accorto che tratta di un femminicidio. Sia all’epoca della sua uscita, sia ai giorni nostri, non ha mai sollevato polemiche o causato scalpore; forse perché, come dice il testo, si tratta soltanto di una “leggenda”, o forse perché fin da subito veniamo avvertiti che la canzone è “per chi non fraintenda”. Certo, a differenza delle altre due canzoni che ho portato come esempi, qui veniamo immersi in un’atmosfera magica, fuori da ogni tempo e da ogni spazio, e la vicenda ci appare quindi del tutto slegata dalla realtà. Tra noi ascoltatori e i personaggi della storia c’è una distanza incommensurabile, ciò che viene narrato è accaduto in un altro mondo, o forse non è mai accaduto. E’ una leggenda, d’accordo; dobbiamo quindi leggerla in maniera simbolica, allegorica? L’assassinio fa parte del disegno di questa luna antropomorfa? Eppure l’uomo compie il crimine per gelosia, perché si crede tradito. E’ quindi la solita vecchia storia. La si può raccontare come si vuole, ma alla fine abbiamo sempre un uomo che uccide una donna spinto da una mentalità ormai troppo radicata. Non si può giustificare l’atto con la scusa che si tratta di una leggenda, e che questa gitana assassinata non sia mai esistita. Nemmeno Delilah e Lella sono mai esistite, probabilmente. Ma il delitto permane nel racconto, e si ripete, e si ripete un’altra volta ancora. Ciò che è stato non si può più cambiare, ma si può cambiare il futuro. E la musica ha un grande potere, soprattutto sulla mente dei più giovani; sarebbe bene che si venisse educati all’ascolto, all’analisi dei testi delle canzoni che sentiamo alla radio. Perché non accadano più quelle tragedie a cui ci stiamo quasi assuefacendo; perché un domani Delilah, Lella, e la gitana senza nome, siano libere di amare o di non amare, senza che questo intacchi il loro sacro diritto di vivere.

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